Il grande brigantaggio


Dopo la conquista manu militari del Regno delle Due Sicilie da parte del Regno di Sardegna (con la formazione del Regno d'Italia unitario), nei territori del Napolitano (il Mezzogiorno italiano continentale, quindi Sicilia esclusa) scoppiò una tremenda ribellione generale contro le istituzioni del nuovo Stato da parte delle plebi contadine di tutta la regione. I maggiori epicentri di tale ribellione furono le zone più povere: l'Irpinia, la Capitanata, l'Alta Terra di Lavoro, le Puglie, i Ducati, ma soprattutto la Lucania (o Basilicata). Di qui veniva il più grande e leggendario capobrigante della stagione del "grande brigantaggio", definito il Napoleone dei briganti: Carmine Crocco, detto "Donatello". 

La stagione del brigantaggio è stata a lungo banalizzata e rimossa, quasi fosse una sorta di incomprensibile "stortura d'origine" della stagione risorgimentale. Si è stati così costretti, per difendere la vulgata agiografica, a mantenere la limitante prospettiva della classe dirigente dello Stato sabaudo d'allora, per la quale i ribelli erano semplicemente "briganti", delinquenti che al servizio dei signorotti borbonici sfruttavano l'ignoranza della popolazione per porla contro l'avvento provvidenziale dell'Italia unita sotto l'egida sabauda. Il maggiore dei diversi punti deboli di questa lettura consiste nell'ignorare che i signorotti "borbonici", che erano in realtà per dirla meglio i grandi latifondisti del baronato napolitano (grande piaga storica della regione), erano passati in massa dalla parte dei nuovi occupanti, abbandonando il re Borbone per saltare (come in Italia si fa da secoli) sul carro del vincitore. Un'atmosfera ben descritta dal grande Tomasi di Lampedusa nella figura di don Calogero Sedara, riferito però al caso a sé della Sicilia, nel suo Gattopardo

Viceversa, negli ultimi anni, l'epopea brigantesca ha visto una grande rivalutazione a seguito del risorgere del sentimento "borbonico" in certe zone del Sud in reazione al leghismo padano. Come quest'ultimo, il "neoborbonismo" parte dalla giusta volontà di una riscrittura di pagine ombrose e inesplorate della storia nazionale, e di un recupero dell'identità locale (in senso localista) contro gli artifici di un certo nazionalismo retorico di origine ottocentesca. E tuttavia, come la controparte padana quella "neoborbonica" ha molto di grossolano (allontanandosi dall'antico legittimismo borbonico e cattolico d'un Giacinto de' Sivo o d'un Carlo Alianello), approssimativo, urlato più che meditato, poco preciso (ad esempio nel trattare il concetto di "Italia", regolarmente confuso con quello, diverso, di "Stato italiano"), piuttosto semplicista¹. Ecco dunque i briganti in una lettura indistintamente "resistenzial-partigiana" (insomma, una lettura "da sinistra" piuttosto lontana, come già vedemmo, dal revisionismo di un Alianello, e ideologicamente più vicina paradossalmente agli antichi depositari del dogma laico garibaldino e resistenziale), che ignora una realtà storica, quella del grande brigantaggio, estremamente complessa ed eterogenea. 

Riflettere sul brigantaggio significa inevitabilmente riflettere sulle origini della annosa questione meridionale (la disparità Nord-Sud che attanaglia da sempre lo Stato italiano, e che ha prodotto per reazione una questione settentrionale più recente). È fuor di dubbio che la differenza socio-economica tra Nord e Sud Italia, minima prima dell'unificazione, si sia brutalmente inacuita (ai danni del Sud) a seguito del moto unificante. Con ciò non si deve scordare che il Mezzogiorno, come stiamo per vedere, si portava dietro una situazione sociale, perlomeno nelle provincie (in buona parte campagne poco produttive, e dominate come andiamo a vedere dal baronato latifondista), più complicata di quella settentrionale. Ma certamente questo divario non era nulla di insormontabile prima della conquista delle Due Sicilie, né le plebi napolitane e siciliane versavano in condizioni disperate (come sarà negli anni successivi, con l'introduzione di una tassazione feroce da parte del nuovo e intransigente regime liberal-borghese). Anzi, diversi furono i meriti (accanto a certi difetti) della dinastia dei Borboni (vituperata da una certa vulgata), in primis quello di aver dato a Napoli una indipendenza internazionale (anche dalla medesima corona spagnola) della quale essa non aveva mai davvero goduto (e della quale seguitava a non godere un Nord succube delle grandi potenze o di staterelli ad esse soggetti, con l'unica eccezione del Regno di Sardegna e in buona parte del Granducato di Toscana), perlomeno fin dai tempi della conquista aragonese (1442). Come andremo a vedere, il Regno delle Due Sicilie, al momento dell'unificazione, non era né lo staterello insulso descritto dalla damnatio memoriæ risorgimentale, né la potenza degna del Creso antico o degli States moderni descritta ingenuamente da alcuni "neoborbonici". Esso era un regno agricolo con diverse antiche difficoltà nella gestione della vita provinciale e della modernizzazione economica, ma al tempo non davvero misero, e dotato altresì di alcuni promettenti punti di forza storici e recenti. 

Il Regno delle Due Sicilie era uno Stato eminentemente agricolo. Il vivace riformismo (1830-1848, stagione davvero luminosa per il Reame, com'erano stati, perlomeno dal punto di vista dello sviluppo, il regno di Carlo III e la prima parte di quello di Ferdinando IV) di quel re memorabile e dimenticato che fu Ferdinando II di Borbone² aveva tentato con relativo successo di dotare questo assetto socio-economico agricolturale d'un apparato di mercato libero e produttivo, dando luogo ad una incoraggiante stagione di risultati e di "primati" napolitani in ambito di modernizzazione tecnica non solo italiani ma anche europei, dalla prima tratta ferroviaria della Penisola, con la Napoli-Portici, alla prima illuminazione elettrica europea, a Napoli. Ma al contempo la modestia delle Due Sicilie di inizio Ottocento rispetto al secolo precedente aveva reso impraticabile la sinergia tra il liberismo interno e le dosate tutele statali alla produzione nazionale che il giovane Re intendeva porre a capo del suo progetto di modernizzazione stabile. Il risultato fu un protezionismo che penalizzò le conquiste della politica economica interna rendendole molto provvisorie. Ma al netto delle luci e dei limiti della politica governativa, ad ostacolare le riforme era stata ed era soprattutto la sostanziale ostilità tra la Corona ed una esterofila borghesia liberal-democratica, piuttosto pigra sul fronte dello sviluppo e culturalmente legata ad un modello illuminista e carbonaro settecentesco e straniero, forte anche del proliferare in quasi tutte le provincie continentali e isolane di un ristretto apparato clandestino di logge massoniche vere e proprie (le quali, assai popolari presso i Borboni e soprattutto presso la regina Maria Carolina prima della Rivoluzione francese, erano diventate odiatissime dalla Corona dopo i dolorosi eventi rivoluzionari). Dal 1848 (con il fallimento della rivoluzione autonomista siciliana³ e la stretta autoritaria di Ferdinando II) il riformismo fu definitivamente abbandonato, con il risultato di un arroccamento delle Due Sicilie su di una linea di immobilismo economico e sociale ed isolamento internazionale. Ai fruttuosi impulsi del giovane Ferdinando subentrò così uno stanco accordismo monopolistico con imprenditori svizzeri (che taglieranno evidentemente la corda non appena ci sarà il "cambio della guardia"). Il centralismo assolutistico, già consolidatosi nel reame all'epoca del dispotismo illuminato, raggiunse nel decennio di crisi dell'ormai anziano e stanco Ferdinando punte patologiche, con l'isterilimento della classe dirigente napolitana affiancata da una burocrazia mediocre e inconcludente. Questa premessa per chiarire a monte che, fuor di dubbio, la situazione non era idilliaca e le Due Sicilie soffrivano da qualche tempo primariamente di diversi mali interni. 

Ma sappiamo d'altronde che soprattutto l'Inghilterra vittoriana aveva ogni interesse all'indebolimento della monarchia borbonica napoletana, per lei doppiamente fastidiosa in quanto legata sia alla Spagna che all'Austria e in una posizione strategica importante per i commerci mediterranei. Era stata proprio l'Inghilterra la principale avversaria dell'ambizione di Ferdinando II al rilancio napolitano sui mari, puntando al ritorno alla grande stagione di metà Settecento. Augusto Del Noce arriverà condivisibilmente a sentenziare che: "Il cosiddetto 'Risorgimento italiano' andrebbe meglio inquadrato come un capitolo della storia dell'imperialismo inglese". Se Napoli continuava a vivere una stagione di splendore culturale mai più eguagliata (nel Settecento, sotto il già citato Carlo III, essa era stata tra le capitali più fiorenti del mondo e certamente la più fiorente d'Italia, oltreché la terza più popolosa di tutt'Europa), figurando tra le più vivaci capitali europee, gran parte del territorio del reame era composto da campagne più che modeste, con deboli collegamenti tra i centri abitati, ove spadroneggiava un latifondo prepotente (i cui manutengoli saranno gli antenati delle mafie e delle camorre) contro cui la stessa monarchia borbonica giunse più volte ai ferri corti, senza mai riuscire davvero a danneggiarlo e ad estirparlo per via del complesso equilibrio sociale vigente nelle provincie, che scelse infine (come faranno poi gli stessi "unitari") di non compromettere. 

E ciononostante, la vita nelle campagne delle Due Sicilie, sebben dura, era vivibile (facendo parlare ad un cronista serio, e peraltro tutt'altro che accusabile di simpatie borboniche, quale il melfese Francesco Saverio Nitti, di uno stato di "grossolano benestare", molto superiore a come non saranno le condizioni di vita delle plebi dopo l'unità d'Italia), questo soprattutto grazie alla scarsa imposizione fiscale della Corona, e al fatto che il latifondo, sia pure con tutti i suoi evidenti limiti (cui tentava di ovviare, da parte del popolino, l'intervento diretto presso il Re), offriva un accumulo di capitale di cui i contadini potevano fare quell'uso atto a garantirsi una vita tutto fuorché rosea e comoda, ma certamente tranquilla e stabile. Un risultato di questa scelta economica fu peraltro che le casse di Stato si riempirono andando ad accumulare un tesoro statale decisamente ingente (con la maggior concentrazione monetaria della Penisola, notava ancora il Nitti), il quale come noto andrà a riparare i debiti dello Stato unitario stremato dalla seconda guerra d'indipendenza (come un altro cronista melfese insospettabile di simpatie borboniche, Giustino Fortunato, fu tra i primi a denunciare). Se questa strategia disincentivava lo sviluppo (il quale, come visto, era peraltro ostacolato da una borghesia poco collaborativa), dall'altro lato consentiva al Re di seguitare a rimanere presso le plebi una figura amica e vicina, ben più dei latifondisti del baronato ma anche di eventuali invasori (o "liberatori") stranieri. La monarchia era anche per questo sostanzialmente gradita alla stragrande maggioranza della popolazione provinciale: la sua era una politica più favorevole alle plebi fedeli che alle borghesie ingrate

Ecco perché le spedizioni anti-borboniche nelle Due Sicilie, da Murat ai Bandiera fino a Pisacane, s'erano risolte in rovinosi fallimenti. Ecco perché le masse napolitane erano sempre state, nel 1799 come nel 1821 e nel 1848, solidali con la Corona contro i progetti rivoluzionari della borghesia liberale o degli occupanti. Ed ecco perché la cosa si ripeté nel 1860. Se Garibaldi aveva ottenuto comunque successo, ciò era stato - oltre che per l'ingente corruzione degli ufficiali borbonici, e per il finanziamento determinante del Regno Unito - per via del maggior carisma "proletario" che la sua figura esercitava sulle masse di diseredati oppresse dal latifondo baronale (si pensi agli ormai noti fatti di Bronte). Soprattutto in Sicilia, il garibaldinismo trovò terreno fertile, e d'altronde il tradizionale scetticismo dei siciliani verso il centralismo reale partenopeo evitò l'insorgere del revanscismo borbonico in Sicilia anche negli anni successivi. Fu invece il Meridione continentale la zona infuocata dal brigantaggio. E questo sebbene anch'esso non fosse stato talvolta insensibile al carisma barricadero di Garibaldi: lo stesso Carmine Crocco fu garibaldino, e partecipò all'insurrezione di Potenza in sostegno delle camicie rosse. 

Bisogna ora precisare che il brigantaggio era un fenomeno endemico nelle Due Sicilie, organico alle dinamiche degli strati più poveri della popolazione delle campagne. Crocco e i suoi sodali erano stati briganti già prima della stagione garibaldina, e come tali condannati a morte e ricercati dalle autorità borboniche. Questo fenomeno endemico di brigantaggio non sarà affatto assente, mescolato nei rivolgimenti successivi al 1860. Ma quello del 1860 fu tuttavia essenzialmente, come quello sanfedista del 1799, un brigantaggio politico, durante il quale i briganti si fecero alfieri di una causa politica e geopolitica internazionale, venendo come tali usati dalla Corona in difficoltà. Abbiamo visto come i Borboni godessero del sincero affetto di buona parte delle masse contadine, e i briganti non erano che gli intermediari ideali di questo rapporto di fedeltà, i capipopolo naturali di una insurrezione legittimista. Se Crocco era stato garibaldino, anch'egli era stato deluso dalle iniquità del nuovo Stato, e aveva inalberato il giglio borbonico (che pure aveva "costantemente abborrito", sic, come confesserà nell'autobiografia, essendo di sentimenti per natura ribelli e certo non realisti), gradito alla popolazione. 

Questa, riavutasi anch'essa da quel poco di illusione garibaldina che era riuscita ad attecchire presso di essa, era ora oppressa da un nuovo Stato lontano e ostile, insensibile ai problemi delle nuove provincie. Le Due Sicilie furono trattate dal neonato Stato sabaudo unitario alla stregua di un Messico insubordinato e fastidioso, e ad esse furono applicate tasse ingentissime e insostenibili sui beni di prima necessità (come quella famosa sul macinato) e lunghissime chiamate di leva, che privavano le famiglie del sostegno giovanile nell'agricoltura, determinante davvero per quella società. Si parla in ambito storiografico della cosiddetta "piemontesizzazione", il tentativo cioè delle classi dirigenti unitarie di adeguare dall'alto ritmi economici ed istituzioni dei vari Stati al modello sardo-sabaudo⁴. Una velleità ingenua, poiché sommamente artificiale, ispirata al modello burocratico e accentratore d'Oltralpe, e profondamente dannosa per provincie da ritmi e meccanismi tanto diversi (ben più stazionari, per di più dopo l'accantonamento del riformismo ferdinandeo) come quelle napolitane. In più, un sistema di censura "rieducatrice" impediva qualsiasi dissenso rispetto al nuov'ordine liberale. Le Due Sicilie non tardarono ad esplodere di consequenziale malcontento e furore legittimista, e lo stesso Massimo d'Azeglio, il più obiettivo e realista tra gli esponenti di quella stessa classe dirigente liberal-massonica che da Torino aveva condotto all'annessione, riconoscerà inascoltato: "Bisogna capire definitivamente se i napolitani ci vogliono o no. Agli italiani che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate. Perché ci vogliono, e sembra che ciò non basti, sessanta battaglioni, ed è notorio che briganti o non briganti niuno vuol saperne". Così era, ma le archibugiate ci sarebbero state eccome, sino ad una vera e propria guerra.     
                       
In foto, Carmine Crocco, il più celebre brigante lucano
Il brigantaggio contò tra i suoi esponenti tanti protagonisti del clima banditesco precedente, i quali, passando talvolta per il garibaldinismo, si posero alla testa del movimento legittimista. Carmine Crocco, nato a Rionero del Vulture, si distinse per una spiccata abilità come capo-guerriglia. Al suo fianco, altri nomi illustri del brigantaggio quali l'aviglianese Ninco Nanco e la famosa "brigantessa" casertana Michelina Di Cesare. Crocco era nato in una realtà misera, rievocata nell'autobiografia scritta in carcere "Come divenni brigante". Benché talvolta il cognome indicato sia "Donatello" o "Donatelli" (facendo ipotizzare a qualcuno che "Crocco" fosse un soprannome: nel dialetto melfese "u' cròcch" è il bastone), è provato dal certificato di battesimo che ciò derivasse da un'usanza locale di richiamare il nome di un avo conosciuto (tal Donatello), laddove "Crocco" risulta il vero cognome. Nel racconto autobiografico, il brigante ricorda anche come in lui maturarono ideali più anarcoidi e "socialisti" che vicini al monarchismo popolano. Per la monarchia napoletana, Crocco non aveva mai avuto gran devozione (non a caso, i circoli legittimisti veraci non avranno mai simpatia per Crocco e per i suoi: il memorabile cronista lealista borbonico Giacinto de' Sivo ne scrive: "Appellantesi generale, intento più a rapinare che alla causa regia"). Ancor meno ne aveva per le borghesie liberali. S'era fatto abbagliare da Garibaldi, ma quando s'accorse del triste nuovo stato di cose non esitò ad accorrere sotto la bandiera reale, che era quella spontaneamente rimpianta dalle popolazioni contro il nuovo occupante. Mai rinnegherà tuttavia le simpatie garibaldine (convinto com'era che anche Garibaldi fosse stato "tradito" dai Savoia), e addirittura nelle fasi finali della guerra del brigantaggio arriverà a porgere la mano ai repubblicani mazziniani e garibaldini proponendo loro, senza successo, un'alleanza contro il regno liberale sabaudo (concludendo un proprio proclama di rivolta con un significativo: "E vivano pure i nostri ardentissimi repubblicani fratelli!"). 
In generale, va notato come nella sollevazione brigantesca postunitaria il sentimento legittimista fosse il prevalente, ma non l'unico. Accanto ad esso, diffuso era un senso di sfiducia generale verso le istituzioni, in una sorta di rabbia popolare generalizzata. Se essa andò spesso a indirizzarsi quale tradizionale fedeltà verso il re legittimo spodestato, non mancarono i casi in cui (complici i trascorsi antiborbonici e persino garibaldini di taluni briganti) la ribellione fu ispirata ad un moto anti-sistema generale, ostile tanto ai vecchi quanto ai nuovi sovrani, oltreché, questo sempre, ai "notabili" locali. 

In foto, Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli
Proprio questa natura ideologicamente ambigua della sollevazione brigantesca preoccuperà la corte borbonica in esilio, e nello specifico il giovane Francesco II di Borbone. Quest'ultimo, a lungo indegnamente ridicolizzato e ridotto alla caricatura del ridicolo "Franceschiello" (Paolo Mieli, anch'egli non sospettabile di simpatie reazionarie, parla di "tipico caso di infierire retorico del vincitore sul vinto"), era una figura nobile e tenace (è stato recentemente proclamato anche servo di Dio, primo passaggio della causa di canonizzazione, e la sua santità di vita è indiscutibile), ma piuttosto inesperta e inadatta al tesissimo momento. Non gli mancava affatto una visione politica (un abbozzo di ruralismo moderno opposto al modello dell'industrializzazione che si iniziava ad imporre in Europa), quanto piuttosto l'esperienza ed abilità politica, la contingenza favorevole ed una classe dirigente con cui poterla concretizzare efficacemente. Non era affatto un cardinale Ruffo e, ora che era spodestato, al contrario del bisnonno Ferdinando non ne aveva uno a disposizione per coordinare il confuso movimento brigantesco in cui, come visto, la nostalgia per il passato regime conviveva con un ribellismo spontaneo contro ogni potere, anche legittimo. La corte napoletana in esilio vantava alcuni sinceri legittimisti determinati, ma lontani dai problemi concreti della popolazione, e il cui controllo sullo scomposto moto ribelle era pressoché nullo. Il Re decise perciò di avvalersi di José Borjes, un eroe delle guerre carliste spagnole, per coordinare a distanza i briganti sincerandosi della loro fedeltà alla causa legittimista, e del persistere di questa presso le masse provinciali. Borjes entrò in un rapporto piuttosto conflittuale con Crocco (il quale ormai aveva alle sue dipendenze quasi tutte le bande della Lucania, dell'Irpinia e della Capitanata), e la sua campagna legittimista sarà breve: catturato dai sabaudi l'8 dicembre 1861 sui monti della Marsica, subirà una condanna sommaria alla fucilazione gridando: "Viva il Re!".  

La morte eroica di Borjes liberò Crocco da un fastidioso elemento di disturbo per la sua lotta personale contro lo Stato "piemontese"⁵. Il disaccordo era stato tale persino nella simbologia: Crocco ed i briganti utilizzavano la tradizionale bandiera bianca col giglio borbonico e la coccarda rossa, laddove Borjes e i suoi in accordo con la corte napolitana in esilio avevano scelto la bandiera tricolore con lo stemma borbonico al centro ("Voi sapete che magnifica missione avrà Francesco II di essere per eccellenza il re italiano e liberale nel buonsenso, i colori italiani furono insozzati dalla Rivoluzione ma Francesco li purificherà forse", aveva scritto a Borjes da Roma il principe Ruffo di Calabria della famiglia del celebre cardinale). Francesco II e la battagliera moglie Maria Sofia di Baviera iniziarono a dubitare seriamente dell'affidabilità di Crocco e dei capi-briganti, benché la popolazione contadina continuasse a manifestare le proprie nostalgie borboniche. Protestava il De' Sivo: "Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi venuti qui a depredar l'altrui? Il padrone di casa è brigante, e non voi piuttosto venuti a saccheggiar la casa?". Gli fece eco dal parlamento liberale e da opposta fazione lo stesso deputato federalista radical-repubblicano Giuseppe Ferrari, rivolgendosi alla Camera: "Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli".  Lo Stato sabaudo rispose con una repressione feroce e indiscriminata: il brigantaggio non fu capito (o forse talvolta fu capito troppo), e fu trattato dai nuovi padroni quale il moto indisciplinato di plebi ignoranti da "rieducare" sotto l'egida della nuova Italia. Le provincie napolitane furono trattate alla stregue di una colonia ribelle, e tale erano di fatto, per le nuove classi dirigenti: una mera colonia (in primis elettorale) con diritto di rappresentanza in Parlamento. Tale sarà la condizione del Sud per tutto il primo periodo di vita unitaria. 

La legge Pica (15 agosto 1863, n. 1409) sancì lo stato d'assedio, e il Mezzogiorno passò alla mercé di durissimi ufficiali quali Enrico Cialdini e Emilio Pallavicini, conoscendo rappresaglie, fucilazioni sommarie, arresti di massa, veri eccidi. Lo Stato italiano gestì le Due Sicilie come quello francese aveva gestito le rivolte bretoni e vandeane⁶. Chi era anche solo sospettato di collaborare coi briganti rischiava la fucilazione. Particolarmente clamoroso il caso di Pontelandolfo e Casalduni, due borghi rasi letteralmente al suolo dopo una rivolta brigantesca ("Non ne resti pietra su pietra", ordinò glaciale Cialdini). Atrocità si consumarono da ambo le parti (gli attacchi briganteschi contro le autorità sabaude - accanto alla Guardia Nazionale composta da volontari filo-unitari della borghesia liberale meridionale - erano violentissimi e macabri, con numerosi morti anche tra i giovani soldati mandati come repressori in quelle lontane regioni, e altrettanto lo erano naturalmente le spietate repressioni sommarie sabaude), e si può parlare di vera e propria guerra civile, prolungatasi per tutti gli anni '60 e infine conclusasi con una pacificazione violenta e unilaterale. I governi porteranno avanti per decenni una politica di privilegio verso lo sviluppo del Nord industriale, laddove le classi dirigenti locali del Sud borghese e latifondista acconsentiranno a tale linea in cambio dell'assicurata tutela dei propri interessi. La politica clientelare dei governi postunitari (ancor di più dopo la vittoria della Sinistra trasformista di Depretis) si porrà a tutela proprio di questo "asse" tra il ceto industriale settentrionale (perlopiù lombardo) e quello latifondista meridionale, acuendo ulteriormente la "questione meridionale". 

Infine, le provincie napolitane saranno "pacificate" con la forza, ma molti aspetti dell'annosa "questione meridionale" hanno origine proprio in quei tragici eventi. Nelle eterogenee file dei briganti accorsero sinceri legittimisti, soldati borbonici allo sbando, criminali comuni esponenti dell'endemico brigantaggio banditesco, e soprattutto tantissimi giovani disperati, che seppero morire per la propria terra, le loro famiglie e le loro comunità in un frangente di grave ingiustizia. Quest'ultima dimensione sarà preminente rispetto al pur più che presente sentimento legittimista verso il re spodestato, e la guerra del grande brigantaggio avrà un connotato più confuso della sollevazione legittimista del 1799 (anche in assenza di un cardinale Ruffo). Anche questo contribuì al suo fallimento. Ma molte ferite resteranno aperte, molti i problemi da risolvere, inevitabile il ripensamento e la riflessione su quegli eventi, per le sorti del Mezzogiorno e dell'Italia intera. Un ripensamento dell'assetto centralista nato da quegli eventi non può prescindere da una vera quanto complicata risoluzione della "questione meridionale" (e per logica conseguenza di quella "settentrionale" che ne è solo una bizzarra conseguenza storica). L'Italia d'altronde, scrisse un illustre analista straniero di poco nota e genuina cultura filo-italiana quale Dostoevskij, dinanzi alla grigia anonimità dello Stato centralista italiano nato da quegli eventi, può esistere in coerenza con la propria essenza storico-sociale solo al plurale, quale eterogeneo Belpaese organico conglomerato di diverse "Italie"⁷

Note
1) Accanto a questa reazione di pancia, da "Pontida al contrario", stuzzicata da fortunati libelli piuttosto improvvisati, è comunque sorta anche una riflessione storica revisionista di qualità, talvolta proveniente d'area filo-borbonica ma talaltra anche da autori ideologicamente lontani dal legittimismo monarchico (si pensi a pregevoli saggi come "Un regno che è stato grande" di Gianni Oliva, o "Il sangue del Sud" di Giordano Bruno Guerri, entrambi storici di area laico-liberale o radicale, proprio quella tradizionalmente più restìa a mettere in discussione il mito laico del "Risorgimento"). Tra i testi migliori di parte filo-borbonica, "L'ultimo re di Napoli" e "Briganti!" di Gigi Di Fiore (comunque non monarchico), e "Sicilia 1860-1870" e "Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud" di Tommaso Romano (fondatore della casa editrice Thule e nome illustrissimo del movimento monarchico). Per chi volesse approfondire i più antichi lavori dei citati Giacinto de' Sivo (pamphlettista) e Carlo Alianello (romanziere storico), si segnalano nel primo caso "I napolitani al cospetto delle nazioni civili", e nel secondo "L'Alfiere" e "La conquista del Sud". 
2)
Dice Nitti (liberale): "
Pochi principi italiani fecero tra il '30 e il '48 il bene che [Ferdinando II] fece. [...] Giovane, forte, scaltro, voleva fare da sé, ed era di una attività meravigliosa. È passato alla Storia come Re Bomba e di lui non si ricordano che il tradimento della Costituzione, le persecuzioni dei liberali, le repressioni di Sicilia, e le terribili lettere di Gladstone. Abbiamo troppo presto dimenticato che, durante quasi due terzi del suo regno, i liberali stessi lo chiamarono Tito e lo lodarono e lo esaltarono per le sue virtù e il desiderio suo di riforme. Abbiamo troppo spesso dimenticato il sollievo che le sue riforme finanziarie produssero nel popolo, e l'ardimento che egli dimostrò nel sopprimere antichi abusi". 
Aggiunge Alianello (legittimista): "Volle strade, volle porti, volle bonifiche, ospizi, banche; poco sopportava una borghesia saccente e rapace, la cosiddetta borghesia dotta, i 'galantuomini'. Cercò piuttosto di creare una borghesia che mirasse al sodo. Non fu fortunato per la ragione che nel Napoletano altra borghesia non esisteva che quella delle professioni e degli studi, permanili e pagliette, quelli che avevano cacciato suo nonno da Napoli, legati a fil doppio allo straniero per sole ragioni ideologiche che il Re, come re, non capiva; e l'avida e avara schiera dei proprietari terrieri".
Il limite principale del regno di Ferdinando, re intraprendente e concreto ("geloso del proprio regno come della propria donna", è il ritratto del biografo Giuseppe Campolieti che riteniamo particolarmente calzante), ma scarsamente addentro ai problemi del suo tempo e complessivamente legato ad un'anacronistica concezione seicentesca assolutistico-patriarcale, fu probabilmente proprio una certa incomunicabilità con una borghesia lontana dalle sue prospettive (e non di rado aprioristicamente ostile quando non sfacciatamente sabotante), la quale presto si volse verso l'esterno sino al salto sul carro del vincitore nel '60. A chiarire platealmente la lontananza, nel Napolitano, tra la monarchia e la borghesia era stata soprattutto l'esperienza traumatica della Repubblica Partenopea (1799), ancora al tempo di Ferdinando IV (I).  Essa aveva dimostrato la lontananza culturale e progettuale incolmabile tra una monarchia borbonica che nel '700 aveva civettato con la cultura massonica e progressista ma che ora, al momento della prova rivoluzionaria, aveva scelto di restare ancorata alla difesa dei valori religiosi e civili dell'Ancien Régime, ed una borghesia culturalmente figlia della cultura massonico-democratica del Settecento e dell'illuminismo napoletano (Filangieri, Pagano, Pepe). Questa distanza creò l'incomunicabilità di cui sopra, e i conseguenti ostacoli sociali fondamentali ad un sano sviluppo del Reame nell'Ottocento. 
3) Le plebi siciliane erano tradizionalmente decisamente meno affezionate (anche se non per nulla) alla Monarchia di Napoli, ed il brigantaggio legittimista fu praticamente assente in Sicilia, ma le vere custodi dell'indipendenza palermitana erano le borghesie e le aristocrazie isolane, virulentemente anti-borboniche, e promotrici della rivoluzione autonomista del '48 (a seguito della svolta centralista del 1816), duramente repressa da Napoli. 
4) Capitolo tuttora poco indagato quello dei mali (pur decisamente minori di quelli patiti dal Sud) che nella nascita dello Stato centralista italiano subì in certa misura e in certe fasce sociali anche il Nord del Paese, a cominciare a ben vedere dal medesimo Piemonte, mutilato delle antiche provincie savoiarda e nizzarda, privato della capitale Torino - con la repressione armata dei moti di protesta di Piazza San Carlo nel 1864 - e accantonato dai grandi monopoli nazionali col risultato di un'ingente migrazione soprattutto verso l'Argentina a fine '800. D'altronde, il "Risorgimento" piemontese era stato condotto dall'elitaria cerchia delle borghesie, mentre negli ultimi anni molte ricerche son state fatte sulle diffidenti proteste contadine astigiane, cuneesi e valdostane contro le spese per le guerre d'indipendenza. Sul caso singolare del Piemonte, astrattamente assurto in pochi decenni a "testa di ponte" della rivoluzione unitaria in Italia pur essendo da sempre una modesta appendice di frontiera alpina, solo da poco entrata chiaramente nel variegato alveo italiano, abbiamo già speso qualche parola in un precedente articolo che invitiamo a recuperare. Passando alla Lombardia, la zona più sviluppata della Penisola, va notato che qui come in Piemonte il "Risorgimento" fu affare prettamente elitario-borghese: il proletariato e contadinato lombardo guardò con diffidenza ed estraneità la borghesia "risorgimentale" autoctona e accolse il ritorno di Radetzky e delle sue truppe accusando "i sciuri", "i signori", di tutti quei disordini. Per arrivare al caso del Veneto: perduta l'indipendenza già ai tempi di Campoformio, nel 1866 esso perse anche quella tutela della propria economia che Vienna aveva saputo gestire meglio di una Roma impegnata nella mediazione tra gli interessi dei grandi industriali lombardi e dei grandi latifondisti meridionali (gli stessi che erano saltati sul carro vincente del 1860). Di qui l'ingente emigrazione veneta, soprattutto interna ma non solo (sul capitolo dell'emigrazione italiana in generale seguita all'unificazione statuale, ingentissima sarà naturalmente quella dalle provincie napolitane verso le Americhe, ben riassunta dal Nitti quando concluse lapidario: "Per il 'cafone', l'alternativa divenne netta: o brigante, o emigrante"). 
5) Il termine "piemontesi" era comunemente impiegato - per ovvie ragioni - in ambito legittimista e brigantesco per indicare gli occupanti sabaudi, benché ufficiali e soldati fossero spesso lombardi, toscani, emiliani, romagnoli e liguri (i piemontesi veri e propri erano maggioritari tra i funzionari d'amministrazione più che tra i militari, soldati come ufficiali, dato che la leva obbligatoria era applicata senza distinzioni su tutto il territorio sabaudo successivo alla pace del 1859). Lo stesso Cialdini era modenese, e Pallavicini genovese. La famosa strage di Pontelandolfo e Casalduni ebbe per protagonista un reparto di bersaglieri livornesi. Si trattava spesso di contadini reclutati con la nuova leva obbligatoria anche qui non di rado controvoglia, e tra i quali non mancarono pur rari episodi di ammutinamento e persino di solidarizzazione coi contadinati locali. Fu il caso ad esempio di due piemontesi: Carlo Pascone e il biellese Carlo Antonio Gastaldi, che entrarono nella banda del capobrigante barese Pasquale Domenico Romano dopo aver constatato le condizioni di ribellione disperata del brigantaggio contadino. Accanto al Regio Esercito, come detto, l'opera di repressione del brigantaggio fu svolta in buona parte anche dalla Guardia Nazionale, reclutata tra i giovani della medesima borghesia filo-unitaria delle Due Sicilie. In questo specifico particolare appare chiara la possibile esegesi della vicenda brigantesca nell'ottica di una guerra civile napolitana con un forte connotato di classe (la borghesia tendenzialmente filo-sabauda, la plebe tendenzialmente filo-borbonica o genericamente sovversiva in senso banditesco-anarcoide). 
6) L'aspetto religioso era presente nelle sollevazioni brigantesche, anche se indubbiamente in modo imparagonabile non solo alle sollevazioni vandeane ma anche a quella sanfedista. Ad ogni modo, il basso clero simpatizzò ordinariamente per la reazione borbonica, contro l'anticlericalismo laicista dei governi sabaudi; l'arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza e quello di Bari e Canosa Francesco Pedicini (ma non solo loro) condannarono l'invasione e la conquista delle Due Sicilie e furono incarcerati dallo Stato sabaudo. Pur colpevoli d'un marcato regalismo giurisdizionalista tipico di tutti i Borboni, i sovrani napolitani erano sempre stati sinceri e devoti cattolici amici della religione, nulla a che vedere col laicismo ideologico del nuovo Stato. I briganti come Crocco e Ninco Nanco, pur essendo uomini rozzi e feroci, non erano privi di una certa cavalleria popolana, con venature di religiosità. Ciò nonostante, non mancarono i casi in cui un certo ribellismo anarcoide (istintivamente ostile a qualsiasi forma di potere organizzato) di alcune bande brigantesche non risparmiò nemmeno il clero (ad esempio nel caso di Lavello, nel Vulture).  Dal canto suo il Pontefice Pio IX (Giovanni Maria Mastai-Ferretti) appoggiò i propositi legittimisti della corte napoletana in esilio (ospitata proprio a Roma) sul moto del brigantaggio, ma conscio della spinosa complessità del fenomeno non esitò, quando questi si rifugiò in territorio pontificio, a far arrestare e condannare Crocco (che si tenterà tuttavia poi di far evadere per impedire che finisse in mano allo Stato italiano con la presa di Roma). Troppo spesso superficialmente accusato di cinismo e ottusità, e nella realtà piuttosto diverso (anch'egli come molti altri "vinti") dalla propria caricatura, il papa del Sillabo scelse di muoversi con grande pragmatismo in una vicenda che si dimostrava, dal punto di vista religioso, ben più confusa di quella del 1799. 
7) Fëdor Dostoevskij, "Diario di uno scrittore" (1877), incipit

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