Sul 2 giugno


È il 2 giugno. In Italia, le feste civili comandate non hanno mai suscitato entusiasmo generale, e sono generalmente condite di una retorica dozzinale e insopportabile. La retorica c'è laddove manca il sentimento autentico, ed è così da sempre. Lasciate dunque che questo 2 giugno io, oltre alla testa, provi a far parlare un po' anche il sentimento autentico (quello mio personale, ben inteso). 

Il 2 giugno 1946, ci informa la retorica mediatica, "gli italiani furono chiamati a scegliere tra repubblica e monarchia, per la prima volta coinvolgendo le donne, e scelsero molto bene esprimendosi a favore della repubblica". Grattiamo la retorica e guardiamo il fatto. L'Italia che andò alle urne 77 anni fa era un paese distrutto: una guerra persa e una guerra civile lacerante ne avevano sbranato le viscere, e gli odi politici di partito seguitavano a dividerla. 

Il referendum istituzionale era inevitabile, con il potere politico nelle mani di partiti antifascisti in massima parte repubblicani, e una monarchia che per vent'anni aveva collaborato con Mussolini e il fascismo. Vittorio Emanuele III aveva abdicato e a succedergli era Umberto II, un re giovane, più popolare del padre, ma ugualmente odiatissimo là dove fischiava il "vento del Nord" rivoluzionario. La mossa che più di tutte aveva squalificato la corona agli occhi degli italiani era stata la "fuga" a Brindisi del sovrano, e in quei frangenti drammatici Umberto aveva tentato in ogni modo di opporsi: aveva capito che il carisma della corona ne sarebbe uscito con le ossa rotte, e mormorò, allontanandosi da Roma: "Che vergogna...". Ma da buon Savoia non avrebbe mai osato contravvenire agli ordini del regnante. 

La repubblica stravinse al Nord, e la monarchia stravinse al Sud. Questo può stupire, oggi che il legittimismo sabaudo al Sud (quello che portò i monarchici a conquistare per decenni i comuni di Napoli e Bari, e centinaia di altri) si è pressoché spento, lasciando spazio semmai ad una forma di revanscismo borbonico. Ma all'epoca era così. Inizialmente i Savoia non erano stati affatto popolari nelle Due Sicilie, percepiti dai più come conquistatori dopo una vera e propria guerra civile seguita all'annessione del regno. Ma come era successo ad ogni cambio di trono, la situazione si era acquietata, e le figure carismatiche dei sovrani Umberto e Margherita avevano saputo far breccia nel cuore dei napoletani e del Meridione, monarchico nell'animo. 

Così i Savoia erano amatissimi dal popolo meridionale, che li salutava con le vecchie note dialettali di E.A. Mario: "Passa 'a bandiera, sventola e va / cuntenta e allera 'o viento 'a fa! / E 'o 'ssaje pecché s'ha misa 'a nocca blu maré? / Passa 'a bandiera e passa 'a Patria e 'o 'Rre...". Al contrario, non erano mai stati così odiati al Nord, dove a farla da padrone erano i gruppi resistenziali di marca azionista, socialista e comunista. La parola d'ordine al Nord era quella lanciata da Pietro Nenni: "La Repubblica o il Caos!". E questo valeva, e vistosamente, anche in Piemonte, la terra dei Savoia, ove vinse la repubblica (pur con un margine lievemente più basso che  altrove). In parte, ciò era dovuto al maggior conservatorismo del Sud rispetto al maggior progressismo del Nord. Ma in parte aveva inciso il fatto che Vittorio Emanuele III si fosse rifugiato al Sud, col Regio Esercito che aveva liberato quelle poche città rimaste in mano tedesca (le famose quattro giornate di Napoli furono un'insurrezione popolare senza partiti, ma tendenzialmente monarchica). Il Nord viceversa si era sentito abbandonato dal Re finito a Brindisi. 

Questo Umberto lo aveva capito perfettamente, e ne ebbe la conferma quando, nel suo "giro d'Italia" precedente alla chiamata alle urne, fu accolto da fischi (e talvolta sputi) al Nord, e da applausi ed entusiasmo popolare al Sud. Quando venne proclamata la vittoria della repubblica, Napoli in particolare non accettò in prima istanza il verdetto: i "quartieri spagnoli" continuavano ad esporre provocatoriamente ai balconi il tricolore con lo scudo sabaudo, e vi furono i dolorosi fatti di via Medina, con l'uccisione di una decina di giovani monarchici in un'azione repressiva della polizia. Fatti che concorsero a convincere Umberto II della necessità di andarsene, per evitare di scatenare una nuova guerra civile (a Napoli si era già formato un movimento secessionista mirante ad un regno sabaudo indipendente nel Sud). 

C'è chi ha criticato questa scelta tacciandola di codardia, mentre io l'ho sempre trovato un gesto nobile, in virtù di due fatti. Il primo riguarda i famosi "brogli" che la pubblicistica monarchica ha costantemente denunciato. Sono sempre stato solidale con questa denuncia, ma non ho mai creduto che questi brogli siano stati determinanti nella vittoria della repubblica, che poggiava su un sostegno popolare più che massiccio nel centro-Nord. È possibile - anzi, probabile - che il conteggio, presieduto dal repubblicanissimo (e dimenticabilissimo) Cesare Romita, abbia subito davvero le vistose manomissioni sospettate da diversi studi, che rilevano le incongruenze presenti nel saggio romitiano del 1959 sulle giornate successive al 2 giugno. Ma ad ogni modo, in secondo luogo, come spiegò lo stesso Umberto II, "la repubblica si può reggere col cinquantun per cento; la monarchia no. [...] La monarchia non è mai un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini, sudditi e principi, incredibili volontà di sacrificio... Non deve essere costretta a difendersi giorno per giorno dalle insidie e dalle accuse. Deve essere un simbolo caro o non è nulla". 

Non ho mai fatto mistero delle mie convinzioni monarchiche. Credo che la monarchia sia migliore della repubblica (ma sono in compagnia di Tommaso d'Aquino e altri nomi altrettanto illustri¹) perché il capo di Stato per me non può essere espressione delle fazioni o delle oligarchie, ma un "pater familias" (la stessa famiglia reale, in una società che riconosca il nucleo sociale della famiglia, svolge rispetto alle famiglie la funzione che il monarca svolge rispetto agli individui), già solo perché deve essere al di sopra delle parti e rappresentare tutta la nazione, incarnando quello che Constant chiamava in termini strettamente politologici "potere neutro". A parer mio pretendere che un anziano burocrate di questo o quel partito rappresenti l'unità della nazione (e il potere neutro) è semplicemente assurdo. Ed inoltre l'ereditarietà della monarchia crea quell'istituto "mistico" cui alludeva Umberto. È un filo che lega nelle generazioni la famiglia sul trono a quelle della nazione. 

È vero che un re stupido può fare gravi danni, ma solo nello scenario dello Stato burocratico a noi noto, in cui gli errori dei funzionari stupidi diventano capillarmente grattacapi di ogni singolo cittadino. La buona monarchia per come la vedo io deve essere costruita in modo tale che anche il peggiore dei Re non possa nuocere il singolo suddito (oltre che salvaguardare la libertà meglio della burocrazia repubblicana). Evidentemente non è dunque una monarchia assoluta, anche se non è nemmeno la monarchia parlamentare a cui assistiamo negli ultimi decenni, che è di fatto una monarchia desacralizzata e repubblicanizzata in cui i reali sono ridotti a oggetto di gossip in T-shirt e blue-jeans. 

Il mio monarchismo è una presa di posizione politica e ideale fine a sé stessa, nella convinzione che la monarchia (e financo l'aristocrazia, se intesa in un certo senso molto preciso) sia migliore della repubblica e del repubblicanesimo. La difesa di specifici sovrani o dinastie del passato o del presente m'interessa molto meno, anche nella consapevolezza che (come diceva Montanelli) "monarchici si è non coi re ma nonostante i re".

Tuttavia, spenderò comunque qualche parola su Casa Savoia. Personalmente, sono piemontese (di ascendenza meridionale per metà) e dunque nativo della terra che è stata il regno dei Savoia per un millennio. I Savoia si son fatti il proprio nome come sovrani di questo piccolo Stato subalpino, di cui han difeso la tranquillità per secoli dall'ingordigia delle grandi potenze, grazie ad una certa abilità diplomatica e ad un apparato istituzionale e militare piuttosto solido. Uno Staterello a cavallo delle montagne, multilinguistico, più simile strutturalmente ad un ducato vassallatico imperiale (quale formalmente in effetti era) che ad una tipica signoria peninsulare (in ciò, piuttosto "germanico" e poco "italiano", e d'altronde le origini dei Savoia risalgono tradizionalmente a Gerolt di Sassonia), con una componente italiana (i piemontesi) ed una francese (i savoiardi) unificata da un solo re. Insomma, l'antitesi del nazionalismo. Uno Stato non a caso fortemente decentrato, che persino dopo il consolidamento del modello assolutista manterrà formalmente  distinti i singoli ducati e principati e regni che lo componevano (sarà solo la tardiva "fusione perfetta" del 1847 a superare ciò, in senso centralista). Ma i Savoia "tali sino in fondo" sono morti con Carlo Felice (1831), guarda caso anche l'ultimo effettivo esponente del ramo primigenio della dinastia, prima dell'ascesa al trono del ramo cadetto Carignano. Al funerale, il vescovo savoiardo Charles-François de Thiollaz dirà significativamente: "Messieurs, nous enterrons en ce jour la monarchie" ("Signori, oggi noi seppelliamo la monarchia"). Abbracciando l'ideale del nazionalismo italiano, i Savoia si sono allontanati di fatto non solo dalla propria radice francese, ma dalla loro funzione storica di collante di popolazioni a cavallo delle Alpi. 

E questo peraltro avvenne nel segno di una alleanza col vecchio liberalismo massonico e anticattolico di marca ottocentesca (parentesi poi chiusa coi Patti Lateranensi, e d'altronde Umberto II fu un cattolico adamantino come la madre Elena, proclamata serva di Dio, che ripristinò i precedenti programmi di formazione dei giovani principi sabaudi nel solco della forte, secolare tradizione cattolica della dinastia), e di un disegno di Stato centralista e burocratico, nemico della grandissima eterogeneità naturale dei popoli d'Italia (di cui furono usurpati altri troni altrettanto legittimi). Tanto sono affezionato, da piemontese, ai Savoia per ciò che sono stati nei secoli (pur nel loro status tutto sommato "modesto" di piccoli sovrani di montagna), quanto sono critico verso il Regno d'Italia sabaudo nato nell'Ottocento, pur riconoscendo appieno il senso e la necessità storica di un'unità d'Italia, benché in senso materialmente ben diverso da com'è avvenuta (e cioè in senso federalista, conservando i legittimi troni e stati tradizionalmente presenti in Italia; anche se col senno di poi e parlando fantapoliticamente un'Italia federale o confederale con un solo Re come collante sarebbe stata più efficace della problematica invocazione neoguelfa del Papa a svolgere questo ruolo). 

E ciononostante, i Savoia sono riusciti comunque a rappresentare qualcosa, per gli italiani. So di veterani "dei giorni della Grande, della vera Guerra, quella del fango e delle trincee"², di ogni parte d'Italia, che ancora a decenni di distanza sospiravano di commozione ripensando all'epoca del Re Soldato, della Leggenda del Piave, dei versi accorati di De Amicis e di Pascoli. Fu soprattutto proprio la Grande Guerra (in sé un immane conflitto infame e probabilmente da parte nostra anche evitabile conseguendo i medesimi obiettivi o quasi) che avviò il cementarsi degli italiani dopo secoli di divisioni e conflitti intestini, e fu a tutti chiaro che ciò avveniva col richiamo alla figura del Re, elemento per sua natura organicistico e unificante. Personalmente sono un sostanziale pacifista ma non un anti-militarista, e non ho mai amato la retorica anti-militarista tanto diffusa quando si parla del nostro Regio Esercito. La sua storia non è esente da pecche, ma neanche da tanti episodi edificanti a monito che "il soldato italiano - quando si mette di picca - non muore neanche se lo ammazzano"³. I Savoia, nel loro ottantennio "italiano", hanno saputo concorrere alla nascita di un ethos nazionale italiano, che pur scontando allora e tutt'oggi le pecche d'origine di cui sopra ha dato prova in guerra e in pace di una propria genuinità. 

Vale anche la pena di ricordare (come evidenziato da Tommaso Romano nel recente "Umberto II e il referendum del 1946 nella Sicilia che votò monarchia") che Umberto II credeva, a differenza degli appiattitori ottocenteschi, nella genuina valorizzazione delle autonomie locali, e firmò proprio in questo spirito lo Statuto speciale della Regione Siciliana. Fu anche lui a concedere il diritto di voto alle donne, altro primato usurpato volentieri dalla retorica repubblicana lasciando cadere la precisazione. Fino alla morte, il buon re esiliato visse la propria condizione con dignità, senza recidere i legami con l'amatissimo Paese lontano ma senza potervi più tornare per una norma transitoria all'italiana, di quelle che non transitano mai. Non abdicò mai, seguitando a mantenere contatti epistolari con migliaia di italiani rimasti fedeli alla Corona, pur ripetendo che la priorità era quella di servire "l'Italia innanzitutto". Fu fatto morire all'estero, in una triste clinica svizzera, spegnendosi - dopo aver recitato il Rosario - con le lacrime agli occhi e sulle labbra le parole: "Italia, Italia, Italia!..."³. Impossibilitato ad esser seppellito in Patria, come avrebbe voluto e come sarebbe stato elegante concedere da parte di una repubblica che non fiatò sulla sua scomparsa, Umberto sarà seppellito nell'abbazia savoiarda di Hautecombe, significativamente com'era successo a Carlo Felice un secolo e mezzo prima. Ad ora, le spoglie dell'ultimo re d'Italia riposano ancora fuor d'Italia. "Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes" (Scipione l'Africano, "Factorum et dictorum memorabilium"). 

Naturalmente, dico in chiusura, Vittorio Emanuele III ha avuto davvero talune delle colpe imputategli tutt'oggi dalla propaganda avversa, anche se sul tema andrebbe comunque fatto un discernimento obiettivo tra le propagande avverse dei più diversi colori ideologici (ad ogni modo, per la cronaca, chi scrive non è un grande estimatore storico della sua figura). Ma nessuna di queste pregiudica la validità o meno dell'istituto monarchico, dato che tutte (si legga bene: tutte) le medesime si sarebbero potute svolgere ugualmente se Vittorio Emanuele fosse stato un presidente di repubblica, e che anzi come intuì notoriamente De Felice furono proprio l'autorità morale peculiare di Monarchia e Vaticano a depotenziare il totalitarismo italiano facendone un "totalitarismo incompleto". 

Il permanere della monarchia italiana non avrebbe mutato probabilmente in maniera determinante le nostre sorti generali. Ma per tutte le ragioni che ho voluto esporre, e lasciando parlare quel "sentimento" genuino cui accennavo in apertura, oggi come ogni anno io mi trovo sul versante poco popolare dei monarchici, quello di Giovannino Guareschi e della "sua" signora Cristina: "Che democrazia?! I Re non si mandano via mai!".

Viva il Re. 

"Perché sono monarchico? Per ragioni storiche, per ragioni sentimentali, per ragioni pratiche. Per me, un presidente di Repubblica è sempre una persona espressa da un partito e non riuscirò mai a considerarlo al di sopra delle parti. Non potrò mai ascoltare la sua voce come quella della Patria."
(Giovannino Guareschi)

Note:
1) Uno dei motivi che portarono alla condanna a morte di Socrate (naturalmente stando a Platone, che è quasi l'unica fonte che abbiamo su di lui), mediante l'accusa di "corruzione dei giovani", fu proprio la sarcastica e dirompente polemica politica che ingaggiò contro la democrazia ateniese in favore dell'aristocrazia (meritocratica) e della monarchia. Monarchico fu anche lo stesso Platone (è ironico come il suo dialogo "Politèia" sia stato tradotto nel mondo romano, e in italiano, come "La Repubblica"), mentre Aristotele propendeva per la superiorità teorica di una monarchia illuminata retta da un "re saggio" ma la consigliava solo nelle circostanze favorevoli a questo. Nondimeno disprezzava la democrazia, sull'onda dei propri maestri, e preferì scappare dalla democratica Atene per mettersi al servizio della monarchia macedone. Quanto al citato S. Tommaso, egli indica sull'onda di Aristotele nella monarchia virtuosa il miglior modello possibile, mentre la democrazia (in una versione ancora "equilibrata") come la meno peggiore delle tre forme deteriori di Stato (dopo vi sono la oclocrazia e la tirannia). 
2) Da "Un giorno in pretura" (1953), regia di Steno. 
3) Giovannino Guareschi, "Diario clandestino" (1943-1945), Rizzoli, Milano, p. 181. 
4) A riguardo della annosa disputa attorno alla successione ereditaria al trono sabaudo italiano dopo la morte di Re Umberto, la mia posizione coincide sostanzialmente con quella che individua nel Duca Amedeo di Savoia-Aosta (una figura nobile di autentico galantuomo, scomparso ormai un paio d'anni or sono) ed ora nel figlio, Duca Aimone di Savoia-Aosta (ed eredi) i legittimi pretendenti al trono vacante. Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, ha perso per sé e per i suoi eredi la legittimità delle proprie pretese a seguito della contravvenzione ai richiami paterni riguardanti ben due intenzioni di matrimonio (la seconda delle quali, con Marina Doria, andata in porto, senza il consenso paterno che vietò addirittura al monarchismo italiano qualsiasi omaggio alla coppia). Secondo le leggi dinastiche sabaude (Vittorio Amedeo III  nello specifico), l'erede al trono che contrae matrimonio senza il consenso del Re perde ogni diritto di successione. Come se non bastasse, Vittorio Emanuele pensò di uscire dalla propria scomoda posizione firmando un documento in cui sostanzialmente disconosceva l'autorità paterna autoproclamandosi Vittorio Emanuele IV d'Italia. Si tratta evidentemente di fellonìa, grave aggravante alla situazione di perdita di legittimità dinastica. Il passaggio al ramo cadetto aostano è stato autorevolmente riconosciuto dalla Consulta dei senatori del Regno e dall'Unione Monarchica Italiana nonostante la maggior visibilità mediatica sotto i riflettori degli eredi del principe di Napoli. 
Con ciò, la mia opinione è che a monte di queste vetuste dispute il trono in questione sia di ben difficile restaurazione e che esso è destinato a rimanere vacante, salvo imprevedibili e improbabili rivolgimenti storici radicali. Va da sé peraltro che il modello delle "monarchie democratiche" e quasi-repubblicane dell'Europa odierna cui guarda il piccolo movimento monarchico resta, pur migliore delle repubbliche parlamentari attuali, decisamente molto lontano dal mio ideale. 
5) Da "Don Camillo" (1951), regia di Julien Duvivier, tratto dall'omonimo romanzo (1948) di Giovannino Guareschi (capitolo "La maestra vecchia", prima pubblicazione "Candido" n. 32, 10 agosto 1947). 
Appendice I: Ritratto di Carlo Felice di Savoia, di Indro Montanelli
"A beneficiare della scarna opera di governo di Carlo Felice fu soprattutto la Sardegna, cui il nuovo re era legato da motivi di affetto. Vi fece costruire un certo numero di opere pubbliche e le dette un corpo di leggi più moderne ancora di quelle che vigevano in Piemonte. Gran parte del tempo seguitava a passarlo a Genova e in Riviera, e molti si stupivano di questa sua preferenza per una regione apertamente ostile al nuovo dominio sabaudo. Ma Carlo Felice non ne era offeso perché non ci vedeva nessun tradimento: i liguri erano sempre stati repubblicani, ed era logico che seguitassero ad esserlo. Era ai piemontesi semmai che non perdonava il collaborazionismo con la Francia rivoluzionaria e la ribellione del '21, perché li considerava atti di fellonìa. Egli aveva della lealtà un concetto cavalleresco e feudale. Fin quando suo fratello [l'ex re Vittorio Emanuele I] fu vivo, Carlo Felice non perse occasione per rendergli omaggio come al vero Re, quasi considerasse sé stesso un mero reggente. [...] Dimenticato perché ostile alle premesse del Risorgimento, umanamente Carlo Felice valeva più di Carlo Alberto. Per il trono non brigò mai, ebbe un sacro rispetto del pubblico denaro, non concesse nulla alla popolarità, anzi ne rifuggì con orrore, non fece mai promessa che non mantenesse. Persino Metternich, solitamente avaro di complimenti, ne spende di sinceri per lui nelle sue memorie, definendolo 'un principe degno di ogni elogio, che ha dimostrato tutto ciò che possono una forte volontà e un grande senno'. [...] Sapete quando sono finiti davvero i Savoia? Non il 28 ottobre del '22, non il 25 luglio, non l'8 settembre, non il 2 giugno del '46. Finirono nel 1860, quando si proclamarono re d'Italia. Fossero rimasti re del Piemonte, come volevano Carlo Felice e i suoi ministri alla Solaro della Margarita, forse sarebbero ancora lì, covati ben saldi tra le loro montagne."
Appendice II: L'addio di Giovannino al Re ("Candido", 13 giugno 1946)
"La monarchia è sconfitta, il Re parte e con lui parte anche Giovannino, l'altro me stesso fatto di sogni. Io e Giovannino siamo tornati assieme dalla volontaria prigionia in terra nemica dove assieme - il corpo e l'anima - avevamo lottato con la fame e la nostalgia per mantenere fede alla nostra bandiera. Assieme abbiamo camminato per le strade della Patria ritrovata, assieme abbiamo pianto e sperato sulle rovine delle case. Ma è giunta l'ora di dividerci. Io rimango qui, condannato dal mio dovere di padre e  di cittadino, fino al termine dei miei giorni, al lavoro obbligatorio. Ci dividiamo, Giovannino: tu nel Regno delle ombre, sotto la vecchia bandiera; io nella Repubblica dei sopravvissuti, sotto la nuova bandiera. Addio, Giovannino."

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