La Restaurazione fallita

Il 9 giugno 1815 si chiudeva, nel castello di Schönbrunn, il Congresso di Vienna, e s'inaugurava l'epoca della Restaurazione. Da un lato, il congresso fu un epocale capolavoro diplomatico, che avrebbe assicurato all'Europa un secolo intero di stabilità e pace complessiva.

Tuttavia, se sul piano giuridico contingente Vienna fu un capolavoro, su quello "storico" cui era finalizzato, ossia la sconfitta delle forze rivoluzionarie che avevano sconvolto l'Europa, esso si sarebbe dimostrato un vistoso fallimento: nel 1848 la Rivoluzione scoppierà nuovamente in tutta la sua virulenza e in tutt'Europa, mandando in frantumi l'impalcatura ideologica viennese. La fragilità dell'ordine viennese emerse presto, evidenziata dal fatto che gli equilibri stabiliti al Congresso necessitassero in continuazione della difesa da parte delle baionette austriache e di quelle loro alleate¹, per tutelarsi dalle cospirazioni continue delle società segrete radicali e dalla diffusione di idee rivoluzionarie in tutte le borghesie d'Europa. Com'è possibile che un eccelso capolavoro diplomatico sia stato un colossale fallimento sul piano per così dire sociale e "ideologico"? 

Per comprendere tutto ciò, non ci si può non soffermare sulla figura del geniale architetto della Restaurazione, il principe 
Klemens von Metternich. Se s'indaga la formazione culturale di Metternich, si scoprirà che questa si svolse all'insegna dell'illuminismo di fine Settecento (non certo quello iconoclasta francese, ma quello "moderato" britannico², italiano³ e germanofono), apparente paradosso che lo porrà culturalmente e come forma mentis più vicino ai propri avversari che non a pensatori del genere d'un De Maistre (che non a caso non lo avrà mai in grande simpatia). La lettura delle "Riflessioni sulla rivoluzione in Francia" (1790) di Burke lo convincerà del carattere sovversivo ed apocalittico della rivoluzione francese e delle sue ideologie, legando alla sua brillante carriera diplomatica in ascesa il contrasto ideale ai princìpi dell'Ottantanove. Negoziatore con e nemico di Napoleone, si troverà dopo la sua sconfitta mattatore del congresso di Vienna in nome dell'imperatore Francesco II. 

Ora, se da un lato Metternich come detto riuscirà nell'impresa diplomatica sopraffina della balance of power, sul fronte del contrasto al pericolo rivoluzionario la sua azione si muoverà su due fronti: il ripristino del modello assolutista monarchico settecentesco e la repressione delle idee rivoluzionarie mediante un sistema di polizia. Sul primo punto, non c'è da stupirsi: formatosi nella temperie sopra ricordata, Metternich aveva come orizzonte l'assolutismo illuminato, e nella sua concezione l'ideale da contrapporre alla Grande rivoluzione era un nuovo Ancien Régime settecentesco con una nuova Maria Teresa. Sul secondo punto, come molti han notato, Metternich aveva imparato troppo dai suoi avversari. Un sistema centralizzato e capillarmente diramato di controllo e repressione del dissenso, e l'idea stessa di una pianificazione dall'alto della società atta ad imprimerle la direzione virtuosa immaginata a tavolino sono elementi giacobini nel senso tecnico del termine. Metternich, pur grandissimo spirito di ideali senza dubbio genuinamente nel solco della tradizione europea, antirivoluzionari ed ovviamente antigiacobini, fece propri consciamente o meno la forma mentis ed il modus operandi tipici della mentalità rivoluzionaria, e si trovò a pianificare e gestire la società europea nel senso opposto ma nel medesimo spirito con cui Robespierre vent'anni prima aveva pianificato e gestito quella francese.

D'altronde, le idee della rivoluzione francese non erano semplici motivi di propaganda diffusi artatamente da qualche complotto, ma idee radicate e con una forza epocale inarrestabile di diffusione, perlomeno nel seno delle borghesie progressiste di tutt'Europa. Pensare di bloccarle con la mera coercizione della polizia e delle armi era (e sarebbe) una pia illusione destinata ad arenarsi sulle barricate del Quarantotto, dinanzi alle quali il medesimo Metternich riconoscerà infine: "E' inutile costruire le staccionate alle idee: le scavalcano!". 

Torniamo al primo punto, ossia quello istituzionale. L'errore qui fu duplice e paradossalmente diametralmente opposto. 

Diplomatici di cultura settecentesca, i restauratori viennesi puntarono al ripristino dell'assolutismo, il modello che aveva avuto nel Re Sole, Luigi XIV di Francia, il suo ideale simbolo. Se da un lato, nel caso francese (come con sfumature differenti in quello austriaco ed in altri), quella stagione aveva rappresentato un momento di stabile consolidamento e grandeur da un esteso punto di vista sociale (la grande fioritura seicentesca, da estendersi alla prima metà del Settecento
), da un punto di vista politico-istituzionale (quello che ci interessa), essa era stata - benché i nostri fossero ben lungi dal valutare così - un momento di decadenza, nonostante le grandiose apparenze socio-culturali. Sul piano delle mere istituzioni, l'assolutismo aveva accentrato tutti i poteri (tradizionalmente divisi in un sistema di check and balance molto preciso e articolato, di cui pure sopravvivevano come contrappeso i corps intermédiaires) sul Re e sulla sua cerchia, con la nascita della burocrazia moderna (che, noterà Tocqueville⁵, sarà quasi "naturalmente" ereditata e sviluppata dalla rivoluzione, e il cui mantenimento si farà tanto gravoso da richiedere nei momenti di debito pubblico le ingenti tasse che causeranno una gran parte del malcontento sociale concorrente allo scoppio della rivoluzione) e la trasformazione della classe nobiliare in gruppo parassitario, a Versailles come altrove. Invece di guardare alla nettissima separazione dei poteri della monarchia pre-assolutista (potenzialmente ricuperabile se naturalmente attualizzata), si optò senza nemmeno pensarci per il ripristino del sistema assolutista abbattuto dalla rivoluzione. 

Sul piano giuridico e ideologico, inoltre, non va dimenticato che l'assolutismo aprì paradossalmente la strada alla rivoluzione stessa, che pure a prima vista può sembrarne l'antitesi. Sviluppando l'idea di uno Stato sovrano e sciolto (solutum ab, ab-solutum) da ogni vincolo giuridico antecedente, l'assolutismo attribuì al sovrano ciò che la dottrina democratica rivoluzionaria della sovranità popolare attribuirà al popolo intero, limitandosi a spostare il detentore giuridico della sovranità. E d'altro canto, il secondo errore cui alludevo, speculare al primo, fu quello di una commistione (laddove apparivano evidenti, ai governi, i vulnus dell'assolutismo) con le concezioni rivoluzionarie. Il risultato fu quello di compromessi artificiosi tramite i quali la rivoluzione, cacciata dalla porta, poté rientrare dalla finestra⁶. 

Note:
1) In ciò emerge anche l'ambiguità storica del ruolo geopolitico dell'Austria contemporanea. Il suo ruolo coordinante dipendeva naturalmente dalla sua tradizionale derivazione imperiale, e difatti la sua condotta corrispondeva in ambito internazionale a quella del legittimo soggetto imperiale nel senso dantesco. Ma già dall'epoca moderna, per i rivolgimenti geopolitici successivi già al XIV secolo, l'Austria stava allontanandosi di fatto dalla propria vocazione imperiale in senso medievale, trasformandosi de facto in uno Stato plurinazionale sul medesimo livello degli altri Stati nazionali consolidatisi nell'Europa moderna, senza che esistesse più di fatto quell'equilibrio (in sé, sia chiaro, idealmente e "dantescamente" più che auspicabile per chi scrive) che la giustificasse quale "arbitro" internazionale. 
2) L'influenza del pensiero inglese settecentesco su Metternich emerge anche in ambito politico. Non solo nell'ammirazione per Burke e Hume, ma anche nelle sue stesse parole, che tradiscono stima per il pensiero politico inglese deplorando semmai la sua adozione artificiosa da parte di popoli e tradizioni politiche diverse quali quelli continentali (facendo, in questo caso, un ragionamento non solo montesquieuiano, ma anche genuinamente conservatore e che il medesimo Burke avrebbe sottoscritto appieno): "Tra le cause della tremenda confusione che caratterizza l'Europa del nostro tempo c'è il trapianto delle istituzioni britanniche nel Continente, dove esse sono in completa contraddizione con le condizioni esistenti, così che la loro applicazione riesce sia illusoria che distorta. La cosiddetta 'scuola britannica' è stata causa della rivoluzione francese, e le conseguenze di questa rivoluzione, così anti-britanniche nella loro essenza, devastano l'Europa oggi. I concetti di libertà e ordine sono così inseparabili nella mente britannica che financo l'ultimo garzone riderebbe in faccia ai rivoluzionari se li sentisse decantare, a modo loro, la sua libertà." (Klemens von Metternich, "Aus Metternich's Nachgelassenen Papieren", Vol. 8). 
3) L'influenza della cultura italiana settecentesca su Metternich non deve parimenti stupire, ché il diplomatico asburgico nutriva per l'Italia una grande simpatia. Che la sua famosa frase sull'Italia come "espressione geografica" vada epurata da ogni connotazione spregiativa che le venne attribuita dal nazionalismo romantico nostrano, è cosa ormai ammessa pressoché unanimamente in sede storiografica. 
4) Dello splendore civile e culturale del Seicento e del primo Settecento francesi (su cui si rimanda ai François Bluche, ai Guido Gerosa e ai Pierre Gaxotte, che ha descritto le insospettabili luci dello stesso regno del "Bien-Aimé" Luigi XV - per altri versi notoriamente disastroso) parlano fin troppe testimonianze, dall'indiscutibile spessore storico e personale della figura dello stesso sovrano Luigi XIV alle fioriture intellettuali, da Bossuet e Fénelon ai grandi moralisti francesi fino alle premesse del medesimo Illuminismo: chi mi segue sa che ne sono un detrattore, ma senz'altro la sagacia e la finezza per certi versi insuperate dei suoi esponenti testimoniano il clima intellettualmente notevole che li allattò. Purtroppo, saranno proprio i malus contenutistici della cultura illuminista a produrre al contempo una degenerazione silente che farà sentire i propri effetti già durante il lungo regno di Luigi XV ("Après nous le déluge!", e così fu). Il problema storico fondamentale non è tuttavia di ordine culturale e sociale quanto piuttosto giuridico-politico e istituzionale, con la centralizzazione burocratica dell'assolutismo. E in quest'ambito la figura magnifica del Roi Soleil ci appare come corruttore ben più dei suoi scialbi eredi.  
5) Alexis de Tocqueville, "L'Antico Regime e la Rivoluzione", 1856. 
6) La concatenazione di questi errori emerge emblematicamente a mio avviso nel caso francese: l'impossibile ed inauspicabile volontà (si può discutere sulle reali intenzioni ma non sulla tendenza) di restaurazione velleitaria dell'assolutismo con Carlo X (laddove il Luigi XVIII restaurato nel 1815 aveva dimostrato un maggior equilibrio), con annesso il sistema poliziesco metternichiano e la conservazione della continuità burocratica tra l'assolutismo e il periodo napoleonico; l'adesione al liberalismo democratico dei grandi ceti borghesi in ascesa con Luigi Filippo d'Orléans (figlio del giacobino "Philippe Égalité" che aveva votato per la morte di Luigi XVI nel 1793 prima di seguirlo sulla ghigliottina); la rivoluzione democratica e la repubblica con la sollevazione del Quarantotto: fase radicale la rivoluzione di febbraio, fase socialista quella di giugno; a sbrogliare il caos demagogico rivoluzionario, dispotismo carismatico cesarista-plebiscitario bonapartista con la salita al potere di Luigi Bonaparte/Napoleone III e la proclamazione del Secondo Impero (1852); infine, ritorno ad una democrazia repubblicana avviata sulla via della demagogia partitica di massa (perennemente esposta al periodico cesarismo collaterale alla democrazia di massa, vedansi MacMahon, Boulanger, Pétain, De Gaulle) dopo il 1870. Si badi che ogni fase è consequenziale all'altra, in una curiosa concretizzazione delle classiche categorizzazioni platonico-aristoteliche sulla degenerazione delle forme politiche. 

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