Drammi d'America


L'Unione americana per come nacque dalla dichiarazione d'indipendenza del 1776 e dalla costituzione del 1788 era un Paese profondamente diverso nelle sue istituzioni sociali e politiche da quello che potremmo immaginare noi oggi, e da come lo stesso Paese si presenta oggi. Non molti lo ricordano, ma i 
Fondatori americani erano tutti profondamente avversi alla "democrazia". Anche astiosamente contrapposti tra di loro, i vari Washington, Adams, Franklin, Hamilton, Jay, Madison ecc. erano però d'accordo su questo punto. Il governo rappresentativo dell'Unione originaria era una rappresentanza elitaria basata sul suffragio censuale ristretto e sul voto proporzionale, che facesse da portavoce degli interessi delle rispettive comunità di provenienza in equilibrio con la camera alta (la "aristocrazia naturale" di cui parlò lo stesso radicale Jefferson), con la magistratura indipendente e con il presidente a cui veniva affidato grossomodo il ruolo regio delle monarchie costituzionali (Hamilton personalmente era monarchico e avrebbe voluto per l'America un trono come quelli europei). Questo sistema "alto" conviveva con istituzioni politiche "basse" strutturate sulla base di una democrazia partecipativa comunale, ispirata alla tradizione (di origine medievale) dell'autogoverno dei liberi comuni britannici, in cui i singoli cittadini potevano, entro debiti limiti, contribuire all'amministrazione della cosa pubblica per quanto riguardava le situazioni concrete a livello locale. 

Non si trattava di un sistema perfetto ed esente da punti deboli, ma indubbiamente dotato di diverse virtù e non privo di una sua certa saggezza politica (quella emergente dai "Federalist papers" del 1788), il quale però durò ben poco¹. Già negli anni 1820, infatti, una rivoluzione amministrativa definita jacksoniana (dal nome del presidente Andrew Jackson) iniziò una democratizzazione del sistema politico americano così come pensato dai fondatori. Bisogna tenere bene a mente ora che ciò avvenne in un ambito di nazione profondamente divisa geograficamente tra un Nord industriale, affaristico, individualista, urbano, ed un Sud agrario, rurale, patriarcale. Peculiarità della società degli stati del Nord una valorizzazione proficua di laboriosità, responsabilità ed individualità, ma anche la pericolosa ben forte esposizione alla degenerazione rispettiva in economicismo, arrivismo ed atomismo sociale. Quella degli stati del Sud viceversa appare come una società in cui ad una prestigiosa gentry (i "southern gentlemen") era affiancata una diffusa piccola proprietà agricola dai tratti tipicamente pionieristico-statunitensi, società costruita su sani valori cavallereschi, comunitari e magnanimi, ma incrinata dalla spinosa questione di una rigidissima divisione schiavile fra bianchi (padroni) e neri (schiavi) quanto ad organizzazione della vita sociale e della produzione economica. Dietro alla guerra di secessione 1861-1865 e al vistoso casus belli della schiavitù si cela una contrapposizione più profonda e generale tra due visioni diverse dell'Unione (lo stesso concetto di liceità della secessione era ed è tuttora oggetto di dibattito tra gli storici del costituzionalismo²) e tra due mondi sempre più divergenti

Tralasciamo la narrazione della evoluzione dei fatti storici che portarono gradualmente alla secessione degli autoproclamatisi Stati Confederati d'America ed alla guerra civile (chi volesse può facilmente approfondirla altrove). L'America antecedente alla guerra di secessione era un Paese con una propria identità precisa, quella di una inedita federazione di stati accomunati da una forte enfasi localista sulle autonomie civiche, che comportava attaccamento alla terra intesa come comune, contea, sino ad arrivare al singolo Stato, alle sue tradizioni e consuetudini e ai suoi valori culturali di riferimento (che variavano anche cospicuamente da Stato a Stato). 

L'America figlia della rivoluzione jacksoniana prima e lincolniana poi accantonò di fatto questa concezione, e iniziò pian piano a svincolarsi dai concreti attaccamenti socioculturali al singolo Stato e identificarsi invece in una concezione della più ampia appartenenza statunitense intesa come appartenenza fondamentalmente ad una sovrastruttura ideologica sempre più prevalente, ossia un certo cosmopolitismo democratico di massa. 

Ciò portò inevitabilmente ad una sclerotizzazione di quei pericoli che Tocqueville già negli anni Trenta segnalò come potenzialmente impliciti nella società democratica americana: conformismo retorico, individualismo atomista e sradicato, tirannide della maggioranza. La conseguenza più significativa resta proprio la nascita, o perlomeno il consolidamento di quello spirito ideologico volgarmente detto americanismo, che farà da pallido modello imitativo per l'Europa occidentale della guerra fredda, uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale. C'è chi a ragione individua proprio nella vittoria unionista sulla Confederazione un momento di decisiva rottura fattuale anche se non formale con diverse concezioni passate ed il momento di nascita politica e culturale degli Stati Uniti contemporanei, quelli che si faranno potenza egemone coi vari Wilson e Roosevelt nel secolo successivo. 

Per quanto concerne la questione della schiavitù, è superfluo dire che le ragioni abolizioniste rivendicate e sostenute dal Nord fossero di per sé buone. D'altronde, per molti sudisti anche illustri la schiavitù non era una questione dirimente rispetto a quella propriamente politica. Lo stesso celebre generale virginiano Robert E. Lee manteneva come diversi altri esponenti una posizione ragionevolmente moderata sulla risoluzione del problema (valutando la schiavitù in sé come un "odioso male morale" gradualmente ed organicamente da superare, come testimonia ad esempio una lettera indirizzata alla moglie Mary Anna Custis il 27 dicembre 1856). Ciò nonostante, non va dimenticato che la posizione maggioritaria (incarnata dallo stesso presidente Davis, che si dimostrò molto più miope sul tema) era decisamente più oltranzista, e si riassumeva in una difesa gelosa della schiavitù giustificata non solo economicamente ma ideologicamente, e su cui non transigere. C'è chi ha parlato di feudalesimo razziale, ma nonostante qualche similitudine il paragone resta improprio. L'assenza di tutela giuridica degli afroamericani (imparagonabile alla condizione della servitù della gleba e più assimilabile a quella della schiavitù ellenico-romana) lasciava all'eventuale buon cuore padronale la qualità della loro vita. Così che se spesso (non sempre) nei contesti di servitù domestico-familiare gli schiavi e le loro famiglie erano integrati quali veri membri della comunità domestica godendo di un trattamento magnanimo e a tratti affettuoso, non mancavano viceversa numerosi casi nell'ambito della produzione (si pensi alle stereotipiche piantagioni di cotone) di maltrattamento e sfruttamento coatto, in cui gli schiavi riversavano indifesi nella medesima misera condizione dell'oikéus aristotelico ed erano costretti alla peggio a fuggire negli Stati non schiavisti. 

Sull'onda di tali crescenti fenomeni profughi nacque nel Nord il movimento abolizionista e la volontà di demandare alle autorità federali l'abolizione della schiavitù piuttosto che attendere la mossa dei singoli recalcitranti Stati meridionali. Molto spesso però, accanto ad un umanitarismo sincero e lodevole, l'abolizionismo fu un pretesto per imporre agli stati del Sud una svolta economico-sociale favorevole a quelli del Nord: da un lato le grandi industrie settentrionali esigevano una forte barriera doganale per cingere di dazi la propria produzione, dall'altro i medesimi ceti industriali erano ben consci che la costituzione sociale del Sud ostacolava per almeno due motivi questo progetto condiviso. Da un lato, gli stati del Sud, fondati sulla proprietà terriera, seguivano un indirizzo libero-scambista ostile al protezionismo e ai dazi, dall'altro l'istituto schiavile, che come visto costituiva il punto cardine della produzione agricola sudista, era il perno di un'economia stazionaria e "feudale" incompatibile con l'indirizzo del grande monopolismo industriale. Se i nordisti volevano prosperare nella propria linea, non potevano accettare che quell'ampio gruppo di stati dell'Unione conservasse un tale equilibrio economico-sociale. Che a queste preoccupazioni interessate non fossero spesso accompagnati analoghi scrupoli morali basta a dimostrarlo che una buona parte della classe dirigente nordista arrivò ad ipotizzare una deportazione degli afroamericani in Liberia o a Panama, e il medesimo presidente Abramo Lincoln dichiarò che se fosse servito a richiamare il Sud all'ordine amministrativo da lui impresso non avrebbe liberato "nemmeno uno schiavo". La schiavitù insomma fu certamente una delle cause determinanti della guerra, perché i dibattiti accesi su di essa erano ciò che negli anni precedenti aveva più di tutto creato una frizione culturale tra Nord e Sud, ma dietro questo dibattito tra l'umanitario e il socioeconomico si celava un dissidio politico, economico, sociale ed amministrativo molto più profondo e determinante. 

Se certo l'abolizione effettiva della schiavitù successiva al 1865 fu di per sé qualcosa di positivo in linea di principio, altrettanto sicuro è che concretamente un'abolizione bruscamente e meramente ottriata dall'alto da un giorno all'altro abbia lasciato gli ex-schiavi in una condizione di atomizzazione e improvvisa insicurezza sociale che si sarebbe portata dietro numerose conseguenze negative per loro e per la società nel suo insieme, venendo trascurato il problema dello sgretolarsi di tutte le relazioni sociali consolidate (il cui modello divenne spesso imitativamente quello vincente nordista), senza un loro naturale superamento storico-sociale organico e coerente (problema che infatti resterà socioculturalmente nei fatti irrisolto, con tutte le lunghe tensioni correlate alla segregazione, come già Tocqueville d'altronde aveva intravisto segnalando i rischi di un mero provvedimento federale del genere³)

Note:
1) L'illuminismo anglosassone, che soprattutto mediante Locke e Hume fu il modello culturale dei Fondatori, differiva da quello iconoclasta e sovversivo continentale e segnatamente francese per un maggior realismo politico attento al ruolo sociopolitico delle consuetudini, e ciò emerge nelle assennatezze nel pensiero politico di questi uomini. Sinceri amanti della libertà, erano ben consci di come questa potesse essere in facile pericolo dinanzi all'egualitarismo democratico e all'astrattismo teoretico, e ne prepararono meticolosamente la difesa tanto dal dispotismo quanto dalla demagogia. La debolezza però di un mero illuminismo liberale pragmatico, per quanto avveduto comunque scarno di solidi pilastri politici e metapolitici di ordine tradizionale, non consentì all'America dei padri di sviluppare anticorpi ai successivi germi democratici e atomisti. 
2) La tesi secessionista, mediante il richiamo al pensiero di John C. Calhoun, sostiene non solo che la secessione fosse contemplata come possibilità dai fondatori americani, ma che essa fosse la più fedele applicazione delle loro concezioni dinanzi ad un governo come quello "nordista" del 1861, laddove gli oppositori della risoluzione giungono a considerarla addirittura anticostituzionale.
3) Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America", pp. 371-402. 

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