Rousseau tra reazione e rivoluzione

 

"Rousseau e l'orfismo occupano nella storia una posizione simile: se entrambi, da una parte, hanno dato vita al movimento sovversivo (democratico) e alla religiosità gnostica, dall'altra contribuirono a diffondere il sentimento religioso e l'attitudine reazionaria."
(Nicolás Gómez Dávila, "Notas")

Jean-Jacques Rousseau è un personaggio emblematico che meriterebbe molta più considerazione di quanta non ne riceva comunemente. Tra gli apologeti della Rivoluzione, è diffuso un superficiale apprezzamento per il suo contributo (pur riconoscendone generalmente certe derive estremiste), mentre tra i nemici della Rivoluzione una banale "reductio ad Hitlerum". È in lui presente - andiamo brevemente a scoprirlo - una ambivalenza di segno opposto: esiste un Rousseau rivoluzionario ed un Rousseau reazionario. Come conciliare le due immagini? Per vederlo, partiamo con l'approfondire questa ambiguità vista dalla prospettiva di diversi pensatori di segno teoricamente avverso (ma il cui giudizio, vedremo, diverge notevolmente), a lui di poco successivi. 

Nella sua opera "René et Celuta" (1802), scritta durante l'esilio imposto dalla rivoluzione giacobina e successivamente inserita nei tomi IX e XX dell'opera omnia, François-René de Chateaubriand inserisce il capitolo "Les Sauvages" ("I Selvaggi"), che trasuda d'influenza chiaramente rousseauiana. In esso, Chateaubriand deplora in tempi non sospetti il genocidio degli Indiani d'America, e idealizza la loro comunità armonica, pacifica e incontaminata contrapponendola alla grigia civilizzazione portata dai coloni anglosassoni. Il parallelismo col tema rousseuiano del "buon selvaggio" è esplicitato a chiare lettere, e Chateaubriand si lascia andare a parole di accorata ammirazione per il filosofo ginevrino. 

"Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere; siate umani verso tutte le condizioni, verso tutte le età, verso tutto ciò che non è estraneo all'uomo. Quale saggezza può mai esistere fuori dell'umanità? Amate l'infanzia; favoritene i giuochi, le gioie, le amabili inclinazioni. Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il riso non si spegne mai sulle labbra e l'anima è sempre serena?"
(Jean-Jacques Rousseau, "Emilio")

Il parallelismo scelto da Chateaubriand, ricollegato al buon selvaggio rousseauiano, è quello tra gli Indiani d'America e i contadini cattolici e monarchici della Vandea: gli uni e gli altri abitanti di un mondo piccolo e comunitario, non contaminato dalla smania di potere e prevaricazione e basato su una morale fraterna, ed entrambi schiacciati nel sangue da invasori forestieri che con la scusa della civilizzazione portarono invece dominio, sopraffazione e conquista. È evidente che René non sia acritico nel suo entusiasmo per Rousseau, rimproverandolo esplicitamente (lui rinato cattolico devoto ed apologeta del genio del cristianesimo) per la sua religiosità non cristiana (per "essere passato indifferente dinanzi al cristianesimo", dice lui). Ma al contempo coglie comunque che Rousseau non era un ateo o un irreligioso. La sua religiosità era sì gnostica, ma non quella della gnosi "pura" che, incarnata dal materialismo ateo e nichilista, divinizza l'Uomo considerando Dio un'ipotesi pericolosa e oppressiva; al contrario, riconosce e conserva l'afflato religioso proprio della natura umana. Sul piano religioso, Rousseau va ricondotto all'alveo dei tentativi di reinterpretazione della religione elaborati da una certa cultura naturalista settecentesca, in opposizione alla svolta ateo-geometrica di Spinoza e dei materialisti francesi che a lui s'ispiravano. Collocava l'esistenza del Dio biblico nel cuore degli uomini, mescolandolo alla natura. In ciò, come in molti altri aspetti, egli sembra superare (contraddittoriamente) l'illuminismo ed anticipare il romanticismo, segnatamente quella ricerca (pur grossolana e "incompleta") del sentimento religioso che il freddo razionalismo antropologico dei materialisti illuministi aveva svilito. Egli (dopo aver peregrinato tra calvinismo, cattolicesimo e nuovamente calvinismo) cerca Dio in una religiosità intimistica a metà tra elementi biblici e panteismo naturale, che si risolve in una forma di deismo meramente interiore e sentimentale, ma per così dire ancora "trascendente".   

Rousseau è tuttavia uno dei principali bersagli critici della polemica di altri due pensatori anti-rivoluzionari, Edmund Burke e Joseph de Maistre. Burke affronta l'affaire Rousseau nella sua opera magna delle "Riflessioni sulla rivoluzione in Francia" (1790), in cui accusa Rousseau di esser stato uno dei maggiori "cattivi maestri" che hanno condotto la società francese alla Rivoluzione. In particolare: "La linea di ragionamento di Rousseau ha autorizzato il moderno edonismo a farsi pseudo-religione... Ha insegnato la religione della salvezza sociale personale mediante la solitudine sociale." Per Burke, ricollegandosi all'antropologia cristiana e alla dottrina del peccato originale (espressamente rifiutata dal Rousseau maturo), l'Uomo non è per natura buono e poi corrotto dalla società (individualmente, come collettivamente dopo la rivoluzione neolitica), ma corrotto dall'interno della propria stessa natura a causa del peccato originale. È evidente quindi che credere come credeva Rousseau che sia la mera società ingiusta a corromperlo, e che un apparato istituzionale giusto lo purificherebbe, sia una caduta nel pelagianesimoDe Maistre in "Contro Rousseau sullo stato di natura" (1795) recupera la critica burkeana a Rousseau, andando ancora più a fondo, su basi "socio-teologiche", nella stigmatizzazione del pelagianesimo di fondo della forma rousseauiana di contrattualismo: Rousseau concepisce il contratto sociale spurio come una indebita castrazione dell'Uomo buono dello stato di natura, il quale istituzionalizza la sua corruzione ed è da sostituire con un nuovo contratto giusto (e non con un mero ritorno primitivistico allo stato di natura, come lasciano intendere gli anti-rousseauiani superficiali, ipotesi giudicata impossibile dal filosofo di Ginevra), che corrisponda alla supposta naturale bontà dell'Uomo, e all'identificazione tra sovrano e suddito. Ma gli esiti più catastrofici che De Maistre ravvisa in Rousseau sono proprio quelli relativi alla "volontà generale" che soggiace a questa identificazione. 

"La volontà generale dovrebbe provenire da tutti e applicarsi a tutti."
(Jean-Jacques Rousseau, "Il contratto sociale") 

Con questa nozione, Rousseau risolve il vecchio cruccio contrattualista identificando nella collettività del popolo intero quel "sovrano terzo" a cui Hobbes e Locke volevano delegare il monopolio politico. L'ottimismo antropologico di Rousseau è ancora ed immensamente più grande di quello di Locke, ma il suo sovrano - volens nolens - è ancora più assoluto di quello di Hobbes. Rousseau fu il primo a teorizzare quella terribile contraddizione che era il dovere di essere liberi, fatto poi rispettare da Robespierre con la ghigliottina di place de la Révolution (prima di finirne vittima egli stesso). Se la democrazia liberale è perennemente esposta all'inconveniente della tirannide della maggioranza descritta dai Tocqueville, la democrazia totalitaria di Rousseau si fonda sul principio per cui chi sfugge ai propri doveri verso la volontà generale, il popolo, il bene comune, dev'essere costretto ad essere libero. Sulla base di quale definizione arbitraria di "libertà", sorge spontaneo chiedersi? E chi è chiamato a definirla? Rousseau non risponde, ma tanti scellerati sistemi politici successivi - democratici e dittatoriali - hanno lugubremente risposto per lui. 


Conclusioni
"La risposta a Voltaire non venne dalla Sorbona, e nemmeno dai giansenisti, ma da Rousseau."
(Christopher Dawson, "Gli dèi della Rivoluzione")

Rousseau scrive in un tempo in cui un certo "nuovo" ceto borghese, seguace del razionalismo illuminista e dell'utilitarismo benthamiano, sembra produrre una disgregazione sociale svuotante, ed un meccanismo che premia gli audaci in luogo dei virtuosi. La sua peculiarità (da cui derivano le "ambivalenze" in esame) risiede nel suo ribellarsi agli esiti ultimi di una cultura di cui egli stesso in gran misura faceva - ambiguamente - parte. 

Ciò che di "reazionario" c'è in Rousseau è la sua valorizzazione del sentimento contro la fredda "Raisòn" di marca illuminista, la sua critica alla Tecnica e al mito del Progresso caro ai veri padri nobili dell'età moderna e della gnosi rivoluzionaria. Le pagine "antimoderne" e "sentimentali" del "Discorso sul progresso delle scienze e delle arti" sull'infanzia e sulla vita rurale sono qualcosa a parer nostro di molto elevato, quasi da atmosfera da locus amœnus. In tal senso, Rousseau - nella sua inedita veste di "illuminista contro-illuminista" - contribuì indiscutibilmente alla nascita del romanticismo tedesco, inglese e francese, che potrebbe essere visto in ambito artistico e culturale come una spontanea ribellione dell'Uomo alla barbarie illuminista e razionalista. Anche nello stesso "Contratto sociale" (1762) possono rintracciarsi elementi savi, come nell'idea che il potere politico sorto da un patto legittimo debba necessariamente ottemperare alle finalità etiche specifiche di cui la società lo incarica direttamente. Da non dimenticare inoltre il passaggio di elogio al mito medievale del Sacro Romano Impero dei carolingi e degli Ottoni, visto come un esempio di concreta governabilità universale delle autonome e libere realtà locali, in contrapposizione agli Stati nazionali moderni. D'altronde, se la forma di Stato gradita dal ginevrino è sempre e solo quella forma pericolosamente astratta di democrazia cui abbiamo già fatto qualche accenno (vista non solo come morale, ma redentiva), egli indica nell'aristocrazia elettiva la forma di governo migliore (laddove la democrazia come forma di governo viene giudicata adatta solo a contesti locali molto piccoli, perché "più adatta agli dèi che agli uomini"; si badi all'ambivalenza di quest'ultima espressione, a cavallo tra scettico realismo e trasognato idealismo). Il grande colombiano Nicolás Gómez Dávila giungeva addirittura ad annoverare senza dubbio Rousseau tra i reazionari e non tra i democratici, dicendo: "Rousseau: dalla ragione alla sensibilità, dal generale all’individuale, dall’oggettivo al soggettivo, dal valore impersonale al valore personale, dal Fare all’Essere. Festeggiamo che i democratici innalzino statue a questo reazionario", o ancora: "Rousseau è il primo che rifiuta il programma intellettualista, tecnicista, urbanizzatore della borghesia invadente, dalle stesse file borghesi, dalla stessa colonna dell’assalto". 

Tuttavia, l'ambiguità di Rousseau sta nell'aver fornito parallelamente esempio, argomenti e vera e propria dottrina anche - e, fuor di dubbio, prima di tutto - agli stessi rivoluzionari, col suo pelagianesimo gnostico di fondo (sostanzialmente da sottoscrivere decisamente la valutazione di Burke e di De Maistre), e con il suo democraticismo totalitario (ignoriamo qui le sue idee sulla proprietà privata, che possono prestarsi o essersi anche prestate alle suggestioni social-comuniste, ma la cui unica lettura credibile sarebbe sulla stessa onda dell'Utopia di S. Tommaso Moro). Negli anni del delirio distopico giacobino, quando rimase solo al comando dopo l'eliminazione degli arrabbiati di Hebért da un lato e degli indulgenti di Danton e Desmoulins dall'altro, Maxim de Robespierre teneva veri e propri sermoni in cui raccontava, con una punta di emozione vibrante (e tra l'ironia malcelata delle plebaglie parigine), del suo incontro fanciullesco con Rousseau, descritto come un vero e proprio santo laico, un apostolo ed un profeta della religione dell'Essere Supremo. Sarà Rousseau l'inconsapevole teorico del dispotismo dell'astratta volontà generale che metterà in moto la ghigliottina, e che sarà il presupposto dei totalitarismi democratici e cesaristi dell'Otto e Novecento. Ma la volontà generale e la sua tirannia assoluta non erano che il logico ed inevitabile risultato del vano tentativo rousseauiano di coniugare la libertà individuale con la dottrina della sovranità popolare. Pur senza sfociare direttamente, infine, nella gnosi relativista ed utilitaria alla base della democrazia successiva ("Ciò che è bene e conforme all’ordine è tale per la natura delle cose, indipendentemente dalle convinzioni umane", scrive a pag. 51 del "Contratto sociale"), e pur mantenendo dunque una concezione correttamente trascendente del Bene platonico (differentemente dagli illuministi mainstream e in polemica con loro), la concettualizzazione che fa Rousseau della società civile nei termini sopra descritti di volontà generale e sovranità popolare apre le porte ad una sempre maggior soggettivizzazione, derivante dal paradosso dell'autofondazione della volontà generale; un processo dai chiarissimi risvolti antropoteistici. 

In questa sua ambiguità e contradditorietà, risiede ciò che a parer mio seguita a renderlo interessante senza relegarlo (com'è successo a Voltaire, tanto intelligente e pungente quanto sterile nel suo piatto razionalismo demitizzante - o presunto tale) nella lista di anonimi e intercambiabili padri teorici della Rivoluzione francese. Resta probabilmente, proprio in virtù di questa ambivalenza nel Settecento calante, il pensatore più significativo del suo tempo. 

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