1922 - Rivoluzione all'italiana

Durante il Ventennio, il 28 ottobre era festa nazionale, in quanto anniversario della rivoluzione fascista. Longanesi sosteneva che gli italiani pensano di poter fare la Rivoluzione col permesso dei carabinieri, e il caso calza a pennello, perché quella del 28 ottobre fu una vera rivoluzione all'italiana: una rivoluzione in vagone-letto, quello preso da Mussolini la sera del 29 da Milano per giungere a Roma la mattina del 30 e poter così accettare l'incarico di formare un nuovo governo direttamente dalle mani di Sua Maestà.  

Questa fu la vera "rivoluzione fascista" che consentì il formarsi del ventennale Governo Mussolini: un affare di palazzo, che portò il Re a temporeggiare sullo stato d'assedio consigliato dal primo ministro Facta nei confronti delle camicie nere adunatesi a Roma, per poi defenestrarlo e assegnare l'incarico governativo al leader del partito di quelle camicie nere. Diceva d'altronde sempre Longanesi: "Fra Facta e Mussolini, il Paese aveva già fatto la sua scelta: il primo un onest'uomo, con due baffoni bianchi, ignoto a tutti, incapace di uscire dalla tutela giolittiana; il secondo ha due occhi autoritari, passo spedito. Il primo spera, il secondo vuole, e tutti gl'italiani vogliono". 

In quest'ultima considerazione v'è una verità fondamentale: l'incarico a Mussolini venne dal Re, ma poggiava su un consenso piuttosto diffuso. Mussolini non fu "imposto" con la forza, ma nel 1922 era un leader che godeva di un ampio successo segnatamente nel ceto medio e medio-basso. La sua popolarità derivava dal fatto di riuscire a porsi quale normalizzatore in anni durissimi, quelli nei quali la violenza del biennio rosso aveva messo il Paese a ferro e fuoco sulla scia dell'esempio sovietico, e la vecchia classe dirigente liberale dell'Italietta ottocentesca e giolittiana (della quale il mediocre funzionario Facta era simbolo emblematico) non riusciva a creare nemmeno un governo stabile per risolvere la grave crisi sociale. 

Il fascismo poggiava sulla cultura del nazionalismo piccolo- e medio-borghese dei decenni precedenti, ma aveva origini proletarie (socialiste e nazionalsindacali) delle quali non si liberò mai. Esso fu anzi, anche nella sua componente piccolo-borghese, un'ideologia intimamente rivoluzionaria (anche nel richiamo a taluni valori tradizionali: se è per questo Robespierre era fautore della castità, delle virtù patriarcali e persino di una religiosità profonda ancorché deista¹), socialista (anche quando cercò, nella scalata al potere, il sostegno dei capitalisti e dei latifondisti spaventati dal pericolo rosso²) e collettivista (basti ricordare la celebre formula "Tutto nello Stato, nulla fuori dallo Stato", o la rivendicazione mussoliniana del "Noi fummo i primi ad asserire che, più complicate le forme assunte dalla civilizzazione, più ristretta sarebbe dovuta divenire la libertà dell'individuo"). Il nazionalismo di Mussolini, lungi dall'essere restauratore o reazionario (il nazionalismo stesso d'altronde nasce con la rivoluzione francese, come la coscrizione obbligatoria foriera del militarismo fascista), era invece nazionalpopolare e financo democratico, se intendiamo la parola in un certo senso preciso³. Tesi questa di ampia (quanto, ritengo, prestigiosa) minoranza, ma che faccio mia: fenomeni come fascismo e nazismo non furono di rifiuto della politologia democratica di massa (che proprio a cavallo dei secoli cominciava a superare quella élitario-censitaria dell'Ottocento borghese), ma semmai ne furono prodotti, i quali esclusero l'alternanza partitica ma non la dimensione di partecipazione partitica di massa alle vicende dello Stato moderno. Le passioni politiche da cui emersero PNF e NSDAP erano quelle del caos ideologico democratico, cui si proposero quali freni, non in nome di una de-ideologizzazione, bensì di una ideologizzazione ora esclusiva e non più pluralista⁴.

Al caos demagogico segue sempre la dittatura plebiscitaria (ce lo insegnava già la grande politologia platonico-aristotelica), e come Napoleone fu eletto plebiscitariamente dittatore, ma come figlio della cultura rivoluzionaria e giacobina, Mussolini e Hitler furono eletti plebiscitariamente tali, ma come figli della cultura politica massificata (socialista e nazionalista, nello specifico) dei decenni precedenti. Non dimentichiamo che Rudolf Hess ebbe a definire il nazionalsocialismo unica vera forma (plebiscitaria) di "democrazia germanica", mentre Hitler in persona rivendicò l'appellativo di "arcidemocratico" per sé e per il proprio movimento. Lo stesso identico discorso, perlomeno su questo punto (non è questa la sede per analizzare viceversa le differenze tra i due regimi), può farsi del fascismo mussoliniano. Ne "La dottrina del fascismo", il famoso opuscolo scritto dal Duce di suo pugno nel 1932 per l'enciclopedia Treccani di Gentile, possiamo leggere da un lato il rifiuto della democrazia liberale in quanto sistema disgregante e utilitario, e dall'altro la definizione del fascismo stesso quale "democrazia organizzata, centralizzata e autoritaria" (sic) proprio in virtù del suo porre le masse al centro dello Stato. Mussolini era un tribuno, un portavoce popolare, la sua concezione della politica non era aristocratica, ma democratica, in senso cesarista⁶.

Inizialmente, Mussolini seppe adempiere efficacemente alla sua funzione di normalizzatore e risanatore di una situazione di crisi: il che non stupisce troppo, non solo per la sua notevole abilità politica personale, ma perché già i romani sapevano che una circostanziata parentesi dittatoriale può essere inevitabile e giovare salutarmente in tempo di caos demagogico, e il fascismo richiamava bene o male un organicismo vincente rispetto alle logiche faziose e persino clientelari del sistema che aveva abbattuto. Ma come ogni parentesi autoritaria emergenziale che pretende di farsi paradigma cesariano (e poggiando peraltro sulle basi ideologiche ambigue di cui sopra), anche il fascismo nel tentativo di farsi totalitarismo e di forgiare l'italiano nuovo si farà vittima della propria progressiva illusione gnostica e delle contingenze, conducendo man mano l'Italia alla guerra e allo sfacelo (passando per le tardive idi di marzo del 25 luglio). Non va certo poi trascurata l'influenza negativa che su di esso ebbe dopo la metà degli anni Trenta il vincente modello teutonico hitleriano (di cui il dittatore romagnolo, emerge chiaro da diversi studi, subì un contradditorio ma forte fascino), che sclerotizzò notevolmente le tendenze totalitarie e irregimentanti del regime nostrano. In coda si segnala che l'interpretazione forse più ignorata e più azzeccata del fascismo sarebbe quella che lo analizzasse quale tentativo artificioso di adeguare una realtà come quella peninsulare italiana al modello di grande potenza nazionale, centralizzata, industriale e coloniale, tipico della contemporaneità ottocentesca e della prima metà del Novecento, tentando di riuscire là dove aveva fallito il nazionalismo liberale post-risorgimentale arenatosi ad Adua (di qui l'esaltazione di Crispi da parte della propaganda littoria). Un modello cui la natura storico-ontologica dell'Italia appariva sempre più lamentevolmente inadeguata, generando nel suo Duce l'infastidita volontà di creare quell'italiano nuovo che avrebbe adempiuto alla missione del tempo. 

La marcia su Roma vera e propria fu comunque un episodio diverso, parallelo e più complesso della rivoluzione in vagone-letto mussoliniana. Essa fu compiuta in parte dalla piccola borghesia nazionalista da cui venivano i sogni dannunziani del fascismo, ma in parte da quella base proletaria (e sottoproletaria), nazionalsindacalista e repubblicana che a San Sepolcro aveva fondato il primo fascismo (quella che De Felice definirà "fascismo-movimento"), la quale rimarrà nel Ventennio una minoranza intransigente emarginata per poi riemergere come una fenice nella parentesi terminale di Salò. La marcia servì come dimostrazione grandiosa di ciò che Mussolini sosteneva dinanzi alle istituzioni in crisi, ossia di avere la forza e il consenso per diventare uomo di governo. Fu a suo modo un evento spettacolare, guidato probabilmente da tanti cameratismi ed entusiasmi patriottici sinceri, accanto ad una massiccia dose di fanatismo ideologico. La scelta del regime di iniziare a contare gli anni della nuova "Era Fascista" ("E.F.") a partire da quell'ottobre del 1922 ricorda quella della Prima repubblica francese di fare la medesima cosa a partire dal 1789, ad ulteriore suggello d'una mentalità rivoluzionaria (la quale, da sempre, non risparmia il calendario). 

Note
1) I motivi per cui Mussolini ripudiò il deismo di Robespierre (ma anche il cattolicesimo controrivoluzionario di De Maistre, ponendosi dinanzi al binomio francese rivoluzione-controrivoluzione in una sorta di "terza via", che a parer nostro come detto si risolve comunque sostanzialmente e nettamente nella rivoluzione), preferendo pragmaticamente una generica difesa machiavelliano-maurassiana della tradizione cattolica italiana quale "instrumentum regni", sono illustrati personalmente dalla penna del Duce nella già citata "Dottrina del fascismo". Mussolini fu sempre nell'animo e nelle convinzioni un repubblicano ed un "radicale", e come lui tutto lo "zoccolo duro" del fascismo nel suo complesso. Il fascio littorio fu recuperato, quale simbolo politico moderno, in primis proprio dalla Prima repubblica francese, quella di Danton e Robespierre. Quello con la monarchia fu un compromesso diarchico contingente (si vedano le stesse dichiarazioni di Mussolini sul tema nel radiomessaggio di fondazione della Repubblica Sociale Italiana, 18 settembre 1943), fragile proprio in virtù della implicita ricorrente tensione tra un Duce non monarchico ed un Re geloso delle proprie prerogative statutarie. Quanto a quest'ultimo, crediamo che dinanzi alla crisi istituzionale avrebbe potuto più efficacemente sospendere l'anarcoide ed inconcludente gioco delle fazioni ed instaurare una parentesi di dittatura regia per superare il momento sociale critico, valendosi delle migliori consulenze del Paese, e auspicabilmente preparare un futuro nuovo e più savio equilibrio socio-istituzionale. Ma Vittorio Emanuele III era re di cultura democratico-ottocentesca (in visita a Parigi aveva spiazzato un gruppo di aristocratici francesi elogiando la presa della Bastiglia), che non concepiva questa eventualità rapportata a quella dell'affidare piuttosto il governo ad un leader di partito poggiante su di un ampio consenso popolare, eletto per via parlamentare o ratificato mediante plebiscito che fosse. Ciò nonostante, sarebbe stato proprio un determinante intervento di forza del Re, il 25 luglio, a salvare l'Italia dalla tragica sorte tedesca e nipponica (tacendo sulle dinamiche squalificanti della gestione dell'8 settembre, naturalmente). 
2) Scrive Frédéric Le Moal ne "Gli uomini di Mussolini": "Bisogna riconoscerlo: la rivoluzione fascista, come quelle precedenti e quelle successive, reclutò i propri attivisti tra le file della piccola borghesia, i cui membri hanno spesso sete di azione e di rotture. Si tratta d'altronde di un'altra lezione di questo studio, che conferma la natura rivoluzionaria del fascismo e la sua eredità giacobina, come ho già messo in luce in un libro precedente ["Storia del fascismo", n.d.r.] pur suscitando qualche stridore di denti. Come gli agitatori della Rivoluzione francese, gli uomini di Mussolini colpiscono per l'estrazione sociale, come ho appena detto, ma anche per la giovinezza, la violenza di crociati, la forza della loro utopia, l'ascesa fulminea e la vicinanza alla Massoneria, di cui fecero parte in molti. Mussolini ne aveva certo preso le distanze fin dall'epoca del PSI. Ma questo non era il caso di molti suoi ministri, che erano stati iniziati sin da giovani. Lui stesso confessò: 'De' Stefani è forse l'unico uomo politico a me vicino che non abbia mai avuto accomodamenti con il potere della Massoneria'. [...]  Aggiungiamo per completezza che molti erano passati dalle file della sinistra socialista, spesso moderata, o del sindacalismo rivoluzionario. [...] Molti uomini di Mussolini cedettero alla tentazione prometeica di tutte le rivoluzioni moderne dal 1789, quella di creare un uomo nuovo, illudendosi di essere gli artefici di una nuova storia per il proprio Paese. Proseliti di una rivoluzione inedita, ereditaria del giacobinismo, socialista, nazionalista e antropologica, abbracciarono la trinità fascista del 'Credere, Obbedire, Combattere''". Mussolini si dichiarò sempre socialista, ancora nel crepuscolo di Salò. Il saldarsi di nazionalismo e socialismo (in alcune sue branche "eretiche") è un fenomeno europeo che inizia già a inizio '900 (si pensi, in Italia, al pensiero corradiniano, o al sindacalismo rivoluzionario nazionale di Filippo Corridoni) e si conferma specialmente nel periodo della Grande Guerra (il collaborazionismo francese della seconda guerra mondiale dei Drieu La Rochelle e Brasillach incarnerà poi eminentemente quest'anima socialista parlando di "fascismo immenso e rosso"). Mussolini era figlio di questa saldatura. Al momento di salire al potere, avrebbe voluto un patto di pacificazione col PSI (parzialmente concluso, all'inizio, da Acerbo e Zaniboni), ed una collaborazione con esso dopo averlo convinto ad allontanarsi dalla prospettiva internazionalista. Questa la linea che il Duce avrebbe patrocinato se gli eventi non lo avessero  condotto alla rottura col PSI antifascista, e alla decisione opportunista di patrocinare dunque gli interessi dei grandi ceti borghesi spaventati dell'avanzamento socialcomunista (e poi di arrivare al monopartitismo). Di qui il ministero economico liberista e risanatore di Alberto de' Stefani, che sarà tuttavia presto liquidato da un Mussolini impaziente di inaugurare una linea dirigista, quella degli anni '30. Nel 1938, il Duce confiderà a Carlo Alberto Biggini la sua insoddisfazione per i compromessi cui era stato portato dal 1921 con la grande borghesia capitalista, della quale non può comunque dirsi esser stato un mero strumento come a lungo sostenuto (e tuttora) dalla scuola storiografica socialcomunista ancora figlia del giudizio del Comintern staliniano sul fascismo. 
3) Non si parla evidentemente di democrazia liberale o progressiva, ma nell'accezione generale e specificamente carismatico-plebiscitaria. Dell'intrinseco cesarismo latente della democrazia liberale moderna scrisse già Max Weber ("Wirtschaft und Gesellschaft", 1919), pur senza osare ancora prevedere la pur logica successiva svolta monopartitica che sarà invece teorizzata dall'allievo Robert Michels ("Élite e/o democrazia", 1934). 
4) Emblematico d'altronde come il sistema totalitario di massa sia del fascismo che del nazismo si basasse su partiti (il che, peraltro, significa letteralmente "fazioni", in ambigua contraddizione coi propositi organici del loro nazionalismo, ma coerentemente con la nostra argomentazione): il Partito Nazionale Fascista e il Nationalsozialistische Deutsche Arbeiter-Partei. Anche lo stesso spunto ideologico corporativo-rappresentativo, in sé indubbiamente organicistico, venne realizzato in senso ideologico, statalista e partitocratico. Il totalitarismo stesso quale categoria storico-politica può essere letto quale l'effimera soluzione sbagliata della società novecentesca, tecnica, industriale, massificata alla disgregazione sociale democratico-parlamentare di massa. In questo calderone ideologico confluì dunque confuso indubbiamente anche questo genuino proposito organicistico tradizionale, il cui sviluppo seguì tuttavia la premessa linea rivoluzionaria, collettivista e giacobina di cui sopra, sin dai prodromi anima profonda politico-culturale di quella temperie. La dimenticata e memorabile (per quanto molto abbozzata) esperienza di Strapaese (contemporanea al fascismo "normalizzatore" degli anni '20 più che a quello più marcatamente "totalitario" degli anni '30), autenticamente organica e spoliticizzante, fu non a caso costretta alla "fronda" dalla censura del regime nei confronti del suo dissenso istintivo alla naturale piega totalitaria che esso aveva preso. 
5) Hitler definì sé stesso ed il proprio movimento "arcidemocratico" ("erzdemocrat"), tra le altre occasioni, al discorso di Monaco di fine 1938, in cui contrappose la democraticità del nazionalsocialismo alle "dittature di Schuschnigg e Beneš" avverse rispettivamente all'Anschluss e all'annessione nazista della Cecoslovacchia. Tra l'altro, a pag. 579 dello stesso "Mein Kampf" (1925-26) affermava che: "La base dell'autorità è sempre la popolarità". Tutto il testo (soprattutto la seconda parte del 1926, quella più propriamente teorica) illustra ed espone una concezione della politica apertamente demagogica e demo-plebiscitaria di massa. Tra le altre testimonianze del carattere populista e democratico del nazionalsocialismo, Goebbels proclamava: "Tributo onore alla rivoluzione francese per le possibilità di vita e di felicità che ha aperto al popolo. In questo senso, se volete, potrei definirmi democratico", e Léon Degrelle: "Democratico è chi è stato messo al potere dal popolo, ma la democrazia non si limita ad una sola formula: può essere partigiana o parlamentare. Oppure può anche essere autoritaria. L'importante è che il popolo lo abbia voluto, scelto, stabilito" (lo stesso in un'intervista per il documentario "Il nazismo esoterico" di Marco Dolcetta torna su questo punto illustrando l'importanza nel nazifascismo del rapporto passionale con le folle dominate dal carisma del capo, rivendicando in ciò l'autentica democrazia popolare rispetto a quella parlamentare). Il centralismo fu ereditato da Hitler dalla tradizione bismarckiana. Quanto al socialismo intrinseco alla dottrina nazista (sin dal nome) crediamo superfluo soffermarvici, perché chi volesse studiare le fonti del NSDAP scoprirebbe la rivendicazione continua del carattere popolare e socialista del movimento da parte dei suoi teorici. Ci limitiamo a respingere le vecchie miopi interpretazioni marxiste del nazionalsocialismo come fenomeno "capitalista" in virtù delle collusioni col grande capitale tedesco dei vari Krupp, come se l'addomesticamento dei grandi monopòli privati d'orientamento nazionalista non fosse organico al progetto di dirigismo nazista del quadro socioeconomico nazionale, una economia di per sé fortemente dirigista (benché dichiaratamente distinta dal collettivismo forzato sovietico) durante tutto il decennio hitleriano. Sia anche detto che le collusioni tra Stato dirigista e grande capitalismo possono stupire solo chi non conosca la storia economica dell'Ottocento. Hitler giungerà a dirsi vero applicatore delle idee di Marx, depurate della loro componente "ebraica", e Simone Weil testimonierà la vicinanza ricorrente, prima del 1933, tra le basi dei partiti nazionalsocialista e comunista in Germania. 
6) Tuttavia, Mussolini veniva dal basso, mentre Cesare era un aristocratico di cultura politica democratica. In questo, suo epigono e perfetto cesarista fu Napoleone, non Mussolini o Hitler. Su questo punto, vedi anche Nicolás Gómez Dávila, "Notas": "Cesare, Mirabeau, Napoleone e gli altri individui di tipo similare possono nascere solo in seno ad una classe aristocratica, le cui frontiere tracciano esigenze morali, privilegi politici, impertinenze sociali e preponderanze economiche. Ma non crescono e non si sviluppano se non laddove la democrazia trionfa; per questo collaborano all'agitazione rivoluzionaria [...] Gli autentici aristocratici sono i difensori dell'autentica libertà dall'arbitrio ondivago e passionale dei Cesari". 

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