Gott erhalte...

 

La corona del Sacro Romano Imperatore

La storia europea medievale e moderna è segnata da un'entità politica altisonante: il Sacro Romano Impero. Più ancora che dal concreto Sacro Romano Impero, più lontano che vicino dal sogno universalistico che lo ispirava, è segnato proprio da questo ideale. Ma facciamo un passo indietro (o avanti, se si preferisce). 

Il 21 novembre 1916, l'Impero austro-ungarico si trovava in guerra con le potenze dell'Intesa. La guerra sembrava procedere a fasi alterne, sebbene il malumore interno fosse molto più omogeneamente forte per più motivi. La guerra era stata determinata da un ultimatum cui si era giunti come risoluzione di una complicatissima situazione, quella di un impero multietnico e multilinguistico nel pieno dell'età dei nazionalismi. Nei reparti austro-ungarici erano arruolati soldati delle più diverse etnìe e lingue, tutte storicamente unificate da una figura imperiale "paterna" al di sopra di tutte queste differenze. Questa tradizionale devozione aveva resistito anche in quest'epoca così travagliata, perlomeno se si guarda alla grande massa della popolazione soprattutto provinciale, e questo era valido per tutte le etnìe dell'impero. Ma da ormai quasi un secolo le classi borghesi e studentesche erano in aperta e cocente rivolta contro l'idea dell'Impero, inalberando ora (maggioritariamente) la bandiera della propria appartenenza etnonazionale, ora quella del socialismo, quello spettro che si aggirava per l'Europa spaventando "il Papa e lo Zar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi"¹. Nel bel mezzo di questa guerra portata avanti in una così drammatica situazione generale, quel giorno scomparve proprio quella figura altisonante che aveva parso continuare ad unificare le popolazioni dell'Impero attirandosi per questo addosso l'odio delle élite culturali dell'etnonazionalismo: Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena, per gli italiani Cecco Beppe, per gli austriaci FranzDen Kaiser

La storia degli Asburgo è una storia singolare, perché s'intreccia a doppio filo con un tema ricorrente che si estende lungo il corso della storia europea: l'Impero. Derivato da una parola latina che designava in modo molto "largo" l'idea di potestà, esso era legato per la cultura medievale (non ancora intrisa della filologica riscoperta rinascimentale) alla reminiscenza vaga di una Roma splendida e mitica ormai scomparsa da secoli (laddove continuava ad esistere un solido Impero bizantino ad Oriente). Nell'Europa "romano-barbarica" dell'Alto Medioevo, la frammentazione dell'ordine politico tardoantico aveva portato ad una sorta di "anarchìa" geopolitica d'Europa, in cui le conquiste e i domìni si susseguivano arbitrariamente e le società vi si accodavano per inerzia. Fu proprio per ovviare a questo problema che emerse, prevalendo sulle altre opzioni potenziali (tra cui quella cesaropapista e teocratica che era invalsa nell'Oriente ortodosso), l'idea del Sacro Romano Impero, con la famosa incoronazione di Carlo Magno in San Pietro nella notte di Natale dell'800 d.C. Sino alla morte di Carlo, l'Europa fu di fatto unita in gran parte in un'unica compagine sotto l'autorità di un unico imperatore. L'età carolingia ha del mitico, e non dobbiamo certo indulgere in agiografici romanticismi eccessivi, ma sarebbe menzognero negare la stabilità incoraggiante di un'epoca in cui senza alcun bisogno di un apparato burocratico le signorìe feudali, gli episcopati, le abbazie, le città, i paesi e le contrade rurali si autogovernavano in armonìa in un periodo di "Rinascita" culturale e umana e col richiamo ad una superiore, suprema autorità imperiale (Carlo) con l'unico ruolo di dirimere gli eventuali contrasti sulla base di un diritto comune. Non è la specifica realizzazione storica che tanto ci interessa, figlia del suo tempo e dei suoi limiti, ma il modello politico di fondo che tra tutte le difficoltà ne emerse (e che entusiasmò persino Rousseau), in un modo che forse solo in quel frangente merita uno sguardo retrospettivo davvero pienamente ottimistico. 

Certamente le debolezze fatali di questa impostazione carolingia erano insite primariamente nella sua provvisorietà e momentaneità, ancora legata alle cangianti logiche politiche dell'Alto Medioevo: morto Carlo, decenni di guerre fratricide (letteralmente) tra i suoi figli ed eredi divideranno quello scenario unitario su cui egli aveva regnato. Il titolo "imperiale" rimase confinato all'ambito germanico, prima determinato da un'elezione aristocratica (i cui statuti furono fissati costituzionalmente solo nel 1356 con la Bolla d'oro di Carlo IV di Lussemburgo, dopo l'estinzione degli Hohenstaufen) e poi conquistato dinasticamente da una stabile famiglia imperiale austriaca. Gli Asburgo appunto. Ma prima di allora, l'Europa assistette nel Basso Medioevo, quando ancora l'Imperatore pareva esercitare una sua suprema potestà perlomeno morale sul continente, a quello che semplificando identifichiamo come scontro tra guelfi ghibellini. Alla fine del Medioevo, sarà Dante ad intuire l'ingannevolezza alla base della contrapposizione di cui sopra, che era la contrapposizione tra due volontà di prevalenza egualmente mistificatrici. Elaborerà quella teoria dei due soli² che meglio di qualsiasi altra definizione riesce a cogliere il giusto equilibrio tra il potere laico e quello religioso, sfuggendo sia al pericolo cesaropapista che a quello clericale. Ma tutti noi sappiamo che Dante era un rompiscatole politicamente fallito, e non deve stupirci dunque che il suo sogno sia rimasto una romanticherìa. Per sfortuna sua, nostra e della civiltà. 

Nei secoli, numerosi occupanti di un trono imperiale ormai saldamente tedesco han tentato di riprendere in mano l'ideale ambizioso del mito carolingio, e nessuno con successo, dagli Ottoni a Carlo V. Non ebbe più fortuna dei primi nemmeno il secondo, benché dopo tanto tempo fosse riuscito ad avvicinarsi davvero all'ideale di un universalismo imperiale in Europa, con un territorio talmente vasto (Spagna, Italia, Germania, Fiandre, Borgogna) da far dire che su di esso non tramontasse mai il sole. Ma benché figura storica imponente, "profondamente ancorata alla tradizione medievale benché al contempo la sua mente vulcanica e al passo coi tempi producesse continue idee tipiche della nuova epoca"³, il suo progetto ambizioso era destinato nuovamente a sgretolarglicisi tra le mani. Il modello che s'imponeva era ormai quello dello Stato nazionale, il cui archetipo ideale era il Regno di Francia dei Filippo IV il Bello e dei Francesco I di Valois, in via di centralizzazione burocratica e poggiante sulle teorie di Jean Bodin circa la sovranità dello Stato. Col tempo, il paradigma dello Stato nazionale si impose, il sogno universalista imperiale fu definitivamente accantonato e l'Imperatore si consolidò quale garante del difficile equilibrio tra i tanti principati territoriali di un impero mitteleuropeo e balcanico. Nel 1806, per evitare che Napoleone usurpasse il titolo di Sacro Romano Imperatore, Francesco II d'Asburgo deciderà di porre fine formale al titolo e di trasformare la sua compagine politica in Impero austriaco. Si sanciva così formalmente qualcosa che da tempo si stava imponendo di fatto: la definitiva trasformazione dell'Impero in uno Stato tedesco con sede a Vienna, simile ai tanti principati della multiforme area germanica (la Prussia in primis), esercitante una sorta di sovranità su aree non tedesche (ungheresi primariamente, ma anche slave e italiane) in nome di un archetipo imperiale sovranazionale sempre più in crisi e lontano dallo stato concreto delle cose. 

In un'epoca di nazionalismi, infatti, la contraddizione emergeva evidente. La rivoluzione francese aveva risvegliato il fervore dell'identitarismo nazionale connettendolo ai nuovi ideali di democrazia liberale o sociale che erano stati detonati dalla presa della Bastiglia e diffusi in tutto il continente sulle punte delle baionette delle armate della République. L'imperatore era ormai persino nominalmente un mero principe austriaco-tedesco, che era addirittura patrono della Zollverein (la lega degli Stati di lingua germanica) e che al contempo tuttavia seguitava ad esercitare la sovranità su luoghi non tedeschi e spesso anzi appartenenti a nazionalità in ribollente "risveglio" identitario (spicca il panslavismo, ma anche il nazionalismo risorgimentale nostrano⁴). Francesco Giuseppe aveva incarnato appieno questa difficile epoca di contrasto. Era salito al trono giovanissimo nel 1848, nel bel mezzo della rivoluzionaria "primavera dei popoli" che aveva sconvolto l'Europa da Lisbona a Varsavia, da Stoccolma a Palermo, in nome proprio della ribellione democratica e nazionalista all'ordine imposto dalla certosina ma fallimentare opera diplomatica della Restaurazione viennese. Nello stesso '48 era stato defenestrato Metternich, e persino Vienna, il cuore dell'Europa restaurata, si dimostrava gremìta di entusiasmi sovversivi. Il giovane imperatore salito al trono riuscirà a domare provvisoriamente la situazione, ma da quel momento una serie cocente di sconfitte, compromessi e arretramenti renderà chiaro il definitivo crepuscolo non solo del sogno imperiale paneuropeo ma anche dello stesso ristretto impero austro-asburgico. 

La situazione culturale è invero ancora florida. La Secessione viennese in ambito pittorico, Johann Strauss in quello musicale, la scuola austriaca di economia, i racconti nostalgici di Joseph Roth (vero cantore della finis Austriæ) in ambito letterario, tutto ci parla di un'Austria ridens. D'altronde, nel secolo precedente l'area imperiale aveva dato prova di una provvisoria equilibrata conciliazione tra la propria tradizione sacrale, dinastica e gerarchica e la nuova sensibilità "liberale" della cultura del secolo. Non è da dimenticare che la pena di morte fu abolita per la prima volta al mondo nella Toscana asburgica, e che l'Austria, pur essendo a ragione definita la "spada della Chiesa" contro le minacce protestanti e ottomane, non ha mai ospitato un'appendice locale di Inquisizione, in un clima di sostanziale ampia tolleranza (benché sia pur vero che l'equilibrio si prestò nella seconda metà del secolo a numerose ombrose contraddizioni, insite nell'ideologia illuminista che presentava caratteri intrinsecamente sovversivi su un piano sia politico che metafisico, dei cui effetti l'ambigua stagione di Giuseppe II, poco prima dello scoppio rivoluzionario, è un emblema paradigmatico). 

Eppure, dal punto di vista politico la situazione era critica, e fu Franz che dovette affrontare tutto ciò. L'uomo era l'incarnazione stessa della tradizione reale asburgica. Ogni dettaglio dell'educazione impartitagli dalla madre era volto a far di lui un vero sacerdote di quella tradizione, e ad essa egli volle rimaner fedele sempre. Si dice che ancora all'alba del nuovo secolo si lavasse in una tinozza, rifiutasse la luce elettrica e si vestisse secondo la moda della gioventù. Tutti i personaggi hanno una loro aneddotica, ma nel caso di Franz possiamo dichiararla piuttosto credibile. Giovanissimo aveva voluto un matrimonio d'amore con la cugina Elisabetta di Baviera, la principessa Sissi celebre per la sua bellezza. Ma al contrario che nei romanzati film tratti da questa storia, il loro fu un matrimonio infelice a causa del temperamento insofferente di lei, benché lui l'amasse sinceramente e rimase sconvolto dalla sua morte. Di idee democratiche e socialiste, finirà per ironia della sorte assassinata da un anarchico italiano, che probabilmente le avrebbe condivise. Nel 1866 era stata insolitamente proprio Sissi a patrocinare il compromesso che aveva portato all'Impero austro-ungarico. Uno Stato costituzionale, mettendo da parte l'assolutismo che Metternich aveva voluto difendere troppo a lungo. Ma Franz resterà sempre nel cuore e nei fatti lontano dal modello dei "re all'inglese" (mere figure rappresentative d'istituzione) e convinto della bontà del potere monarchico come contrappeso agli eventuali abusi delle élite dirigenti. La crisi politico-sociale dell'impero derivava da cocenti questioni meramente ideologiche (nazionaliste e democratiche o persino socialiste), perché da un punto di vista amministrativo esso era decisamente all'avanguardia per quanto riguarda decentralizzazione, autogoverno locale e principio di sussidiarietà, risultando un fiore all'occhiello in tempi di grandi Stati centralizzati e burocratici. Un credibile e gustoso aneddoto riportato dal suo biografo Franz Herre ci informa che nel 1910 ricevendo Theodore Roosevelt, Franz abbia risposto così alla sua curiosa e ammirata domanda su quale fosse il ruolo di un imperatore all'alba del XX secolo: "Difendere i propri popoli dai loro politici!"⁵

Nel tempo dell'Art Nouveau e della nascita dell'auto, Franz era ancora in piedi, sul trono dal lontano 1848, e suscitava un certo rispetto persino negli avversari che dai vari fronti nazionalisti, democratici e rivoluzionari lo demonizzavano dipingendolo come un impiccatore. Era chiaro in lui un senso di responsabilità quasi "sacrale" nei confronti dei suoi sudditi. Eppure, non era affatto privo di difetti. Il principale e più fatale era il difetto d'immaginazione (in termini politici s'intende). Fu proprio questo a precludergli fino alla fine ogni ipotesi di un reale e spinto federalismo etnico tra le varie componenti dell'Impero come argine alle disgregazioni nazionaliste. Al contrario, egli rispose alle insofferenze delle borghesie dirigenziali irredentiste serbocroate, polacche, italiane e cecoslovacche con l'imposizione di un funzionariato di lingua tedesca che non fece che inasprire la contestazione etnonazionalista. In direzione di una reale svolta etnofederale (sia pure con alcuni limiti) si muoveva invece promettentemente l'erede al trono reale e imperiale, l'Arciduca Francesco Ferdinando. Ma tutti sanno che costui fu ucciso a Sarajevo da Gavrilo Princip con la rivoltellata che darà il via alla prima guerra mondiale. Personalmente contrario all'entrata in guerra, Franz cedette infine all'interventismo unanime del suo gabinetto governativo con la stessa riluttanza dello Zar russo. Quest'ultimo non vedrà la fine del conflitto perché travolto dalla rivoluzione leninista, Franz perché morì di vecchiaia, dopo uno dei regni più lunghi della storia, a metà conflitto. 

A Franz succederà allora Carlo I d'Asburgo, l'ultimissimo imperatore per appena due anni e di guerra. Una figura drammatica, immensamente religiosa (è stato beatificato nel 2004), che si spenderà sinceramente per la pace ma ci rimetterà il trono. Avrebbe voluto riprendere in mano l'ambizioso e ragionevole progetto ferdinandèo di una reale riorganizzazione etnofederale dell'Impero, ma il momento evidentemente catastrofico rendeva impossibile la cosa per ovvi motivi. D'altronde, l'eliminazione dalla carta geografica dell'ultimo resto dell'Europa medievale fu qualcosa cui gli alleati della Triplice Intesa tenevano particolarmente per motivazioni ideologiche, in preda all'odio antimonarchico proprio delle ideologie democratiche che li guidavano (primariamente l'interventismo statunitense del presidente democratico Wilson). L'Impero austro-ungarico spazzato via dalla malferma pace di Versailles (1919) era ormai un pallidissimo ricordo dell'antico sogno imperiale dell'universalismo medievale, ma la sua demolizione in un'epoca di furori ideologici e nazionali è significativa. Molti illustri analisti, tra cui spicca Guglielmo Ferrero, hanno notato come l'eliminazione dell'Impero abbia aiutato notevolmente la nascita del nazionalsocialismo, che nutriva un odio sconfinato per tutto ciò che era asburgico e che condannò a morte - senza riuscirvi - l'erede al vacante trono imperiale, Ottone, impegnato contro l'Anschluss

Il presente articolo rielabora ed amplia un breve post pubblicato su instagram l'estate scorsa, nel pomeriggio di un giorno molto speciale (per ragioni private totalmente estranee alla materia trattata). Esso è idealmente dedicato alla memoria dell'Arciduca Ottone d'Asburgo, scomparso nel 2011, eccezionale sostenitore dell'identità paneuropea e di una riscoperta e riattualizzata idea di dantesca unità imperiale d'Europa⁶. 
  

Note:
1) K. Marx e F. Engels, "Il manifesto del partito comunista" (1848), p. 1. 
2) Dante Alighieri, "De Monarchia" (1312). 
3) Ottone d'Asburgo, "Carlo V" (1969), introduzione. Ibidem. le riflessioni sulla scarsa fortuna storiografica della sua figura: "Né la Controriforma né a maggior ragione l'Illuminismo gli fecero giustizia. L'Ottocento lo seppellì. Un secolo che iniziava ad accordare status divino allo Stato e alla razza e ad esacerbare il concetto nazionale fino a riempire di cadaveri la vecchia Europa del suo universalismo mediante due guerre mondiali, non poteva aver molto a che fare con la mentalità retrospettiva di quest'uomo". 
4) Per un bizzarro scherzo della storia, a guidare l'unità d'Italia con tre guerre d'indipendenza all'Austria per la conquista del Lombardo-Veneto fu Casa Savoia, ossia una delle dinastìe storicamente più legate in assoluto all'Impero e agli Asburgo. I Savoia erano cavalieri del Sacro Romano Impero e di fatto il loro Ducato era nato come Stato vassallatico imperiale, accanto agli Asburgo avevano combattuto la maggior parte delle loro guerre e non a caso spesso le regine dello Stato savoiardo-piemontese erano state austriache (Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena fu una regina particolarmente amata dai sudditi sabaudi). L'apparente paradosso si spiega facilmente notando che i Savoia del "Risorgimento" erano in realtà il ramo cadetto dei Carignano, da tempo imbevuto d'idee liberal-democratiche e anti-austriache e per questo guardato con sospetto da quello sabaudo primigenio estintosi nel 1831 (curiosamente però il celebre Principe Eugenio di Savoia-Soissons, che all'Impero aveva dedicato tutta la sua vita e la sua arte di ultimo grande capitano di ventura, era un Carignano, pur proveniente da un'ulteriore diramazione più marcatamente francese). Quanto alle nostre rivendicazioni sulle terre italiane dell'impero, naturalmente in una situazione europea "ideale" la loro storica devozione asburgica (perlomeno parlando della zona friulana e in parte lombarda, laddove i territori veneti della Serenissima persero disgraziatamente l'indipendenza con Campoformio, con annessa proverbiale indignazione di Foscolo) non sarebbe stata in contraddizione alcuna con la loro conclamata italianità e persino con l'appartenenza ad un consorzio politico italiano inserito nell'alveo imperiale d'Europa. Non stando così le cose, era evidente una dominazione amministrativa "tedesca" che rendeva due le possibili soluzioni positive: la nascita di un'effettiva indipendente autoamministrazione italiana nell'ambito della devozione imperiale (prospettiva vicina sulla carta alle idee rinnovatrici di Francesco Ferdinando, il quale però come il predecessore non riponeva fiducia negli eventuali amministratori italiani tacciandoli di facili tentazioni irredentiste, cosa che rendeva dunque il piano di difficile attuazione), o il definitivo passaggio di quelle provincie alla Madrepatria com'è effettivamente avvenuto. Riteniamo tuttavia che questo passaggio - a conti fatti la soluzione migliore in quel frangente ormai sempre più palesemente compromesso - sarebbe stato ugualmente fattibile per via diplomatica anche senza partecipare alla demolizione democratica dei resti dell'Impero (con annesso ingresso nella guerra più luttuosa che l'umanità avesse mai visto), dato che la stessa Austria-Ungheria si era mostrata piuttosto accondiscendente dinanzi alle richieste di Salandra e Sonnino nel '15. Per di più, il Sudtirolo non è naturalmente considerabile italiano benché resti tutt'oggi da allora di nostra amministrazione. Precisiamo ovviamente, qualora ci fosse il dubbio, che queste ultime considerazioni storico-politiche non ci impediscono al tempo di cantare la Leggenda del Piave e di commemorare i nostri miseri ed eroici caduti di tutt'Italia il 4 novembre (accanto a tutte le anime assassinate dalla Grande Guerra). 
5) F. Herre, "Francesco Giuseppe" (1979), p. 326. 
6) L'idea che l'attuale scenario di pseudo-unificazione demo-burocratica d'Europa sia nocivo mi trova pienamente concorde. Non così l'opposizione che ne viene fatta in senso "sovranista". Credo al contrario che un genuino "europeismo" da contrapporre a quello ideologico attuale sarebbe doveroso, ben più di una difesa ad oltranza dello Stato nazionale sovrano figlio di Bodin. Un'Europa fatta di piccole entità statali locali, parti di raggruppamenti "nazionali" a loro volta congiunti in un unico scenario europeo (che contempli al suo vertice un'autorità imperiale equilibratrice) è una utopia istituzionale degna personalmente della nostra simpatia intellettuale. Essa chiaramente è tuttavia diametralmente opposta all'indirizzo giuridico-politico del nostro tempo. 


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