La Spagna e il suo Caudillo

Quando nel 2018 il governo spagnolo decise di esumare la salma di Francisco Franco y Bahamonde, Caudillo di Spagna e Generalissimo degli eserciti, dittatore dal 1939 al 1975, il famoso attore (e politico) Arnold Schwarzenegger protestò pubblicamente, definendo Franco "un eroe" per aver salvato la Spagna dal comunismo. Strali e fulmini si abbatterono sull'attore, e naturalmente si procedette all'esumazione, sull'onda di una "cancel culture" che di lì a poco avrebbe levato dalla tomba anche José Antonio Primo de Rivera, il leader della Falange Spagnola (e dire che Franco aveva fatto costruire la Valle de los Caìdos, dov'erano sepolti lui e De Rivera, tumulandovi i resti di molti militi repubblicani proprio in nome della pacificazione nazionale). Le reazioni approssimate dell'opinione pubblica occidentale dimostrarono quanto poco le vicende del regime franchista fossero e siano approfondite fuor di patria. 

Ricorre l'anniversario dell'omicidio di José Calvo Sotelo - casus belli dell'alzamiento militare con cui il Bando Nazionale guidò il colpo di Stato contro la Seconda Repubblica spagnola. A capo degli insorti vi era proprio lui, Franco, il più giovane generale d'Europa, di stanza in Marocco, destinato a vincere la guerra civile e farsi dittatore militare. Gli eventi che avevano portato all'alzamiento erano stati drammatici: la Spagna era uscita malconcia dalla Grande Guerra, e il potere era finito nelle mani di Miguel Primo de Rivera, un mero dittatore militare conservatore (ma piuttosto "sociale" sul piano economico), che aveva creato un regime piuttosto stabile ma ben poco sostanzioso, accartocciatosi su sé stesso e dissoltosi, come naturale, con la sua morte. 

Il Paese era allora finito vittima della lotta infuocata tra le fazioni, con l'esilio del debole re Alfonso XIII di Borbone e la proclamazione di una Seconda Repubblica. Era questa retta da una classe dirigente in maggioranza radicale e socialdemocratica, con una preponderanza del cosiddetto Fronte Popolare, una formula che raggruppava socialisti e comunisti filo-sovietici. Vivaci erano anche i pur arginati elementi trotskisti e anarchici (che saranno peraltro massacrati, più che dagli anticomunisti, dagli stessi comunisti dipendenti dalla Mosca anti-trotskista e anti-anarchica di Stalin). L'elemento unificante di una melange ideologica progressista piuttosto eterogenea era un forte anticlericalismo, inevitabile (per reazione) nelle frange sinistre di un paese storicamente "cattolicissimo" per antonomasia quale la Spagna. 

L'anticlericalismo repubblicano era particolarmente feroce, e giungeva a configurarsi come più o meno tacita accondiscendenza governativa e istituzionale verso le mattanze delle bande di facinorosi che soprattutto in Catalonia - ma in tutta la Spagna - usavano violenza, fino all'omicidio, contro i membri del clero e le associazioni cattoliche. Si calcola che tra il 1931 e il 1939 siano sia stato distrutto il 70% delle chiese spagnole, e che le vittime di queste violenze anticlericali (soprattutto anarchiche, afferenti alla FAI - Federación Anarquista Ibérica, e più contenutamente socialcomuniste) siano stati almeno 13 vescovi, circa 4100 preti, 2300 tra gli appartenenti ad ordini religiosi e 283 suore, cifre alle quali andrebbero aggiunte le meno catalogabili vittime appartenenti ad associazioni laicali cattoliche o uccise semplicemente perché notoriamente religiose. Sovente queste violenze, frutto della rabbia popolare contro il clero (un anticlericalismo catalano dal connotato in origine banalmente sociale e di classe, cui decenni di propaganda socialista e anarchica aveva conferito una rabbiosa connotazione ideologica), erano particolarmente efferate e macabre. 
Se da una parte questa situazione indignò la componente conservatrice e monarchica del Paese (ma anche la "maggioranza silenziosa" disinteressata agli odi fazionari), dall'altra il governo repubblicano guidato dai radicali Manuel Azaña (presidente della repubblica) e Santiago Cesares Quiroga (presidente del consiglio) reagì alle proteste con durezza, giungendo ad escludere, per bocca di quest'ultimo, l'eventualità di sanzioni penali contro eventuali violenze spontanee a danno del leader del partito monarchico, José Calvo Sotelo, che sarà ucciso il 13 luglio 1936. La sentenza di morte era stata moralmente siglata da Dolores Ibárruri, la celebre scatenata "pasionaria" del partito comunista, che aveva commentato rabbiosamente la dignitosa replica di Calvo Sotelo alle parole di Quiroga minacciando: "Questo è il tuo ultimo discorso!". 

Sarà l'omicidio, in queste circostanze di connivenza (gli stessi esecutori, estremisti socialisti, appartenevano alle forze dell'ordine), di Calvo Sotelo a condurre un gruppo di ufficiali conservatori e monarchici al golpe. La base sociale dei golpisti era costituita dalla borghesia (grande, quella del latifondo, come medio-piccola, quella della "maggioranza silenziosa", cui apparteneva anche la grande maggioranza dei contadini), dall'esercito e dalla Chiesa cattolica, che nelle figure dei due papi Pio XI e Pio XII rese sempre esplicito il proprio sostegno al "fronte nazionale" (papa Pacelli giunse a parlare di "crociata" contro le forze atee prevaricatrici, e visto il contesto sopra descritto non aveva così torto). La base politica era costituita da due componenti tanto vicine quanto divergenti e in rapporti tesi: carlisti falangisti

I carlisti non erano nati di recente, bensì nel secolo precedente. Erano i monarchici "più realisti del re", che non avevano accettato il passaggio del trono alla "liberale" Isabella e si erano fatti partigiani del "reazionario" don Carlos. Cattolici-tradizionalisti, custodi (i più legittimi per davvero, benché usciti sconfitti dalle guerre civili ottocentesche) della tradizione e legalità dinastica e sostenitori di un modello popolare di monarchia estremamente decentralizzato, i carlisti erano guardati con sospetto dai falangisti. Costoro erano i seguaci di José Antonio Primo de Rivera (in foto sopra), figlio del dittatore Miguel, giovane avvocato e disinteressato idealista, che aveva teorizzato la dottrina di uno Stato Sindacale, parzialmente ispirato al fascismo - di cui però, va notato, De Rivera e altri ideologi del primo falangismo rifiutavano la nozione di "totalitarismo", come nettamente il razzismo tedesco, dato che "l'Impero spagnolo è stato grande proprio per aver unito uomini di tutte le razze". Il destino di De Rivera sarà quello di venir fucilato dai repubblicani dopo un sommario processo di guerra, dicendo di perdonare cristianamente i propri assassini. Il regime ne farà un proprio nume tutelare, ma come spesso accade dietro la retorica erano nascoste complesse e bollenti contraddizioni. 

I carlisti e i falangisti infatti, se erano uniti dall'astio verso la Seconda Repubblica, la sua ideologia e i suoi delitti, erano divisi su quasi tutto il resto. Se i carlisti erano legittimisti, localisti, cattolici (e piuttosto clericali) e conservatori, i falangisti erano tendenzialmente repubblicani, centralisti, rivoluzionari e in alcune correnti - quelle provenienti dalle "Giunte di Offensiva Nazional-Sindacalista", marcatamente socialiste e rivoluzionarie e di sentimenti particolarmente repubblicani e "proletari" - nemmeno particolarmente cattolici (mentre lo era senza dubbio il nucleo falangista originario, comunque non clericale). I carlisti vedevano i falangisti come pericolosamente aperti a prospettive sociali rivoluzionarie, e li sospettavano di quei vizi ideologici che Pio XI aveva riscontrato nel fascismo italiano. Viceversa i falangisti vedevano i carlisti come reazionari, per i più oltranzisti addirittura poco meno pericolosi degli stessi "rossi". Se i falangisti erano particolarmente vicini ai rinforzi italiani e tedeschi mandati dalle potenze dell'Asse (nonostante le riserve di De Rivera di cui sopra), i carlisti ribadivano spesso di voler combattere tanto i comunisti e gli anarchici quanto i nazisti, "enemigos de Nuestro Señor Jesùs Cristo". 

Sarà proprio Franco, col "Bando Nazionale", ad unire forzatamente carlisti e falangisti in un'unica "Falange Española Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista", che sarà il partito unico del regime franchista (il "Movimiento" per antonomasia). Questa unione forzata non sarà gradita da nessuna delle due componenti, che tuttavia l'accetteranno in nome del bene superiore della Spagna. Già da questa mossa emerge quello che sarà un tratto fondamentale del franchismo, e cioè il suo sostanziale pragmatismo, estraneo alle dispute ideologiche e retto dalla figura autoritaria del futuro Caudillo. 

La guerra di Spagna fu particolarmente sanguinosa. I
n difesa della Repubblica accorsero molti volontari spagnoli, di estrazione borghese e proletaria e ideologia progressista, e numerose "brigate internazionali" composte anche da nomi illustri dell'antifascismo estero (molte erano italiane, con personaggi quali Carlo e Nello Rosselli, Luigi Longo e Palmiro Togliatti, che si occupò peraltro delle "epurazioni trasversali" dei trotskisti per ordine di Stalin). La vulgata di coloro che di quel conflitto immane ricordano solo Guernica di Picasso si concentra sull'intervento dell'Asse in sostegno del fronte nazionale, identificando quasi i militi repubblicani coi civili inermi di una qualsiasi Guernica. La realtà è piuttosto diversa. I repubblicani furono spesso combattenti valorosi e determinati, non mancarono figure di personale specchiatezza, ma quanto ad efferatezze non furono meno duri dei nazionali (ispirati com'erano da un'ancor maggiore, impersonale devozione ideologica), ed anzi oltre a proseguire le mattanze pre-belliche ai danni del clero nelle zone occupate, si diedero ad una dura lotta intestina tra le proprie anime inconciliabili, segnatamente quella stalinista e quella trotskista e anarchica. In questo, i repubblicani si rivelarono incapaci di quel superamento delle pur dure contraddizioni interne nel nome più alto della causa bellica che aveva invece unito, pur con l'imposizione dall'alto, i nazionali, i quali lottarono valorosamente ispirandosi al mito cavalleresco del Cid Campeador. Detto ciò, naturalmente, come in ogni guerra civile che si rispetti, numerosi ed efferati furono anche i delitti di parte nazionale, perlopiù falangista (essi furono testimoniati da un cronista ben lungi da simpatie repubblicane quale Georges Bernanos, che non ebbe remore a denunciarli con forza). 

I repubblicani uscirono sconfitti dalla guerra civile. Come detto, non avevano saputo trovare quella compattezza che aveva aiutato i nazionali nella vittoria. Ma come abbiamo visto all'inizio, quella che in sociologia si tende chiamare "maggioranza silenziosa" era insofferente nei confronti della Seconda Repubblica, e desiderava il ritorno della pace e della tranquillità sociale. Franco seppe ottemperare a questo compito, e sarà questo il più grande segreto del suo successo. Arginati gli estremisti interni alle due fazioni falangista e carlista, il Caudillo impose una pacificazione nazionale e un ritorno all'ordine con un regime autoritario. 

Nei primi anni del dopoguerra, gli animi erano ancora infuocati, le ferite ancora aperte. In questi frangenti, come riconosciuto anche dai cronisti più vicini al franchismo, vi furono tanti eccessi repressivi e numerose furono le vittime sommarie dell'epurazione. E tuttavia, la pacificazione avviata da Franco riuscì piuttosto precocemente a far emergere i propri frutti. Al di là di tali eccessi post-bellici, infatti, il regime franchista non fu particolarmente repressivo nei confronti del dissenso, se rapportato ai regimi totalitari coevi. Già la scelta di collocare nella Valle de los Caìdos le salme di alcuni repubblicani in segno di pacificazione parla di una maggior clemenza rispetto a tante altre esperienze dittatoriali del "secolo breve", le quali sull'onda di un freddo dogmatismo ideologico conducevano una vera disumanizzazione dell'avversario, esterno e ancor più interno (benché naturalmente, come in ogni dittatura, il dissenso politico fosse arginato e represso, e per i delitti contro lo Stato vi fosse di norma la tradizionale garrota). 

Se prima della guerra Franco era stato vicino alle potenze dell'Asse che lo avevano aiutato a salire al potere, e con cui condivideva l'antibolscevismo ed antiliberalismo, già durante la guerra manifesterà un parziale sviluppo. I rapporti personali di Franco con Hitler erano sempre stati molto freddi: quest'ultimo guardava con sospetto la sua vicinanza ai settori ecclesiastici e conservatori, e fu snervato dal suo ostinato rifiuto di entrare in guerra al fianco dell'Asse. Per quanto riguarda Franco, credo si possa sottoscrivere l'osservazione per cui

"Franco vide Hitler una volta sola e, da vecchio specialista di criminali dal tempo in cui lavorava nel 'Tercio', inquadrò subito il proprio interlocutore."
(Erik von Kuehnelt-Leddihn, "Leftism: From De Sade and Marx to Hitler and Marcuse")

Probabilmente, prima della guerra Franco aveva intenzione di fondare il proprio Stato con un'ispirazione fascista più marcata, avviando difatti una politica economica dirigista sul modello di quella mussoliniana e concedendo persino a Himmler qualche rassicurazione sulla sua intenzione di adesione alla legislazione dell'Asse sugli ebrei. Questo benché egli fosse senza dubbio all'oscuro della "soluzione finale" nazista e non avesse probabilmente verso gli ebrei intenzioni più dure di quelle tradizionalmente adottate dai sovrani spagnoli, ispirate ad un antigiudaismo religioso cattolico più che ad odio razziale antisemita. Va peraltro ricordato che, forse solidale - lui cattolico sinceramente devoto - con le prese di posizione papali sul tema, Franco non adotterà poi mai misure antiebraiche e sarà anzi sostanzialmente solidale con le operazioni di salvataggio di circa 20 o 30 mila ebrei. Per questo motivo, verrà ringraziato e abbracciato pubblicamente dal premier israeliano Golda Meir. 

Nell'immediato dopoguerra, quando la Spagna si trovava in una situazione internazionale ben difficile per la passata vicinanza col Reich sconfitto, Franco avrà a dichiarare a chiare lettere:

"L'abisso, la differenza più grande tra il nostro sistema e quello nazifascista risiede nella caratteristica cristiana e cattolica del regime che presiede oggi ai destini della Spagna. Né razzismo, né persecuzioni religiose, né violenza sulle coscienze, né imperialismo sui vicini, né la minima ombra di crudeltà hanno spazio sotto il sentimento spirituale e cattolico che regge la nostra vita."
(Francisco Franco, discorso del 14 maggio 1946)

Da un lato, può esser notato come queste precisazioni nel 1946 fossero parte di una strategia propagandistica volta soprattutto a ripulire l'immagine internazionale del regime dalle passate amicizie "scomode", e che nella sua critica al "nazifascismo" l'omologo portoghese Salazar era stato più precoce e puntuale (già nel 1935, Salazar aveva criticato le leggi antisemite di Norimberga, e pur essendo geopoliticamente vicino al Terzo Reich non aveva esitato a deplorare la persecuzione indiscriminata dei cittadini di origine ebraica definendo "pagano e disumano il proposito di divinizzare una stirpe o una razza"). Ma dall'altro, esse corrispondevano ad una reale differenza di fondo del franchismo rispetto al nazifascismo: questo, come ogni totalitarismo, era consistito nel proposito di forgiare un "uomo nuovo", mediante lo Stato, figlio dell'Ideologia e devoto ad uno Stato totalitario gnostico. Il franchismo viceversa concepiva sé stesso come un mero "regime d'emergenza", sorto in Spagna dopo gli eventi tragici della guerra civile per impedire che essa cadesse nell'anarchia o nella sudditanza alla superpotenza sovietica. 

Il suo obiettivo di fondo non era forgiare alcun "spagnolo nuovo", ma tutelare lo "spagnolo vecchio" (quello della "maggioranza silenziosa": provinciale, religioso, ostile alle passioni politiche accese delle varie ideologie) dall'influenza nefasta della società comunista orientale come di quella della nascente civiltà del consumo occidentale (sintetizzata sovente dalla propaganda franchista nel richiamo alla Massoneria). Ciò non impedì peraltro a Franco di prendere una posizione geopolitica nettamente occidentale, e di farsi amici grandi protagonisti dell'Occidente di allora quali Charles De Gaulle, Konrad Adenauer, Dwight Eisenhower e Richard Nixon. La piena integrazione della Spagna franchista nel blocco occidentale avverrà dopo il fallimento di un iniziale debole tentativo di creare un'asse iberica col Portogallo salazarista. In parallelo con questa svolta geopolitica, Franco constaterà il fallimento delle politiche economiche di stampo dirigista, avviando una maggior liberalizzazione (gestita da capaci esponenti del neonato Opus Dei) che condurrà al "desarollo" ("decollo") economico spagnolo degli anni '60. La Spagna di allora era un regime autoritario, in cui tuttavia la società civile viveva - come ammesso pressoché all'unanimità dalla storiografia obiettiva - anni di stabilità e tranquillità socio-economica. Era un sistema retto da un'oligarchia militare dalle vedute politiche piuttosto ristrette, talvolta mediocre, ma che seppe adempiere discretamente alla propria funzione. Va ribadito ancora una volta che quella franchista era una dittatura piuttosto "discreta", che vigilava attentamente sullo sparuto e debole dissenso clandestino organizzato ma godeva del sostanziale consenso della maggioranza dei cittadini, rimanendo piuttosto defilata e pragmatica. Lo stesso grande Ortega y Gasset, che fu oppositore (il più intelligente) del regime, notò come esso non cercasse il consenso retorico della propaganda con l'arma della capillare coercizione. Esso era ai suoi occhi "una caserma ben ordinata, dove ai soldati è consentito parlare male del colonnello purché ne vengano rispettati gli ordini e le buffetterie siano lustre". 

Quanto all'aspetto religioso, esso rivestiva come accennato un ruolo fondamentale nella sovrastruttura ideologica del regime. Pur senza essere mai stato uno "stakanovista dell'acquasantiera", nella sua giovinezza, Franco era sempre stato un cattolico devoto e sincero. Il richiamo alla cattolicità della Spagna sarà uno dei pilastri del suo regime, sempre nella necessità di sostituire gli argomenti ideologici di epoca fascista invecchiati male, ma anche in ottemperamento di un orientamento reale della giunta/classe dirigente, corrispondente in quegli anni al sentimento della stragrande maggioranza del popolo spagnolo. Se è insomma indubbio che per Franco il richiamo al cattolicesimo fosse un importante elemento di consenso politico, è altrettanto vero che ciò corrispondesse alle sue convinzioni di fondo, come indagato e dimostrato dal benedettino Manuel Garrido Bonaño in un suo vecchio saggio, chiaramente schierato ma attentamente e seriamente documentato¹. 

A proposito dei rapporti con la Chiesa, nel 1954 Franco firmò un concordato ad essa molto favorevole, siglato secondo la formula della confessionalità dello Stato cara alla diplomazia vaticana pre-conciliare in generale e al cardinal Alfredo Ottaviani in particolare. A dirla tutta, Franco avrebbe preferito allora una formula di maggior indipendenza tra le due sfere pur nell'esplicito richiamo cattolico dello Stato, riprendendo la posizione che era stata di José Antonio Primo de Rivera nei suoi scritti, ma aveva comunque accettato la formula prediletta dalla Santa Sede. Quando dunque, dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI imporrà al concordato una revisione in questo senso, il dittatore non sarà affatto contrario come qualcuno ha suggestionato. Egli era anzi molto attento ai buoni rapporti con la minoranza islamica spagnola, e anche con quella ebraica aschenazita. Quel ch'è vero è che Franco sarà ostile agli orientamenti diffusisi nella Chiesa dopo il Concilio, e in particolare valuterà sempre negativamente l'influsso che su di essi aveva la figura dell'ex cardinal Montini, con cui i rapporti erano sempre stati tesi fin da prima della sua elezione a papa. Ad ogni modo, il Caudillo rimarrà sempre rispettoso dell'autorità morale del Papa, da cui sarà elogiato alla sua morte (come già prima di lui avevano fatto Pio XII e Giovanni XXIII). Tuttavia, i rapporti con l'episcopato spagnolo dopo il Concilio si faranno più tesi, per l'insofferenza dei vescovi nei confronti del vecchio regime, desiderosi di una "apertura" (così come i movimenti cattolici, sovente guardando al "centro-sinistra" cattosocialista italiano)².

Ma questo non era che un sintomo di qualcosa di più generale. Gli anni del Sessantotto e della Contestazione non potevano non esercitare sulle generazioni spagnole più giovani un influsso che nemmeno la censura di regime poteva bloccare. La contestazione silenziosa del regime iniziava a farsi strada, più che in ambito politico, in quello generazionale. Ma un altro terreno scivolosissimo era proprio quello del dissenso clandestino, che con un dittatore anziano e malato di Alzheimer e una giovane generazione in cambiamento iniziò a risollevare la testa. L'uccisione del successore designato Luis Carrero Blanco in un attentato dinamitardo ordito dagli indipendentisti baschi convinse definitivamente Franco dell'impossibilità di perpetuare quel "regime d'emergenza", che non gli sarebbe sopravvissuto. 

Già negli ultimi anni aveva avviato un processo di democratizzazione delle strutture di regime, aprendo a forme abbozzate di "democrazia organica" e "corporativa" in senso partecipativo. Decise ora di restaurare la monarchia costituzionale ponendo sul trono l'erede Juan Carlos di Borbone (non scelse, come ci si poteva aspettare, il pretendente carlista per via delle convinzioni comuniste di quest'ultimo, per un curioso scherzo della Storia), che assicurava di voler salvare il salvabile di quella "democrazia organica" di matrice franchista che si stava tentando di abbozzare. Ma fare questo significava continuare la chiusura ai partiti clandestini, e Juan Carlos preferì invece avviare una "transicion" che riporterà al ripristino di una scadente democrazia parlamentare partitocratica. 

Franco morì il 20 novembre 1975, incredibilmente nell'anniversario di morte di José Antonio Primo de Rivera - i cui seguaci, per la cronaca, delusi dall'accantonamento dei propositi nazional-sindacalisti ridotti a orpello retorico, figuravano e figurano tuttora tra i più accesi critici del franchismo. 
La valutazione del suo operato seguita a dividere gli spagnoli. Non potendo riportare i loro specifici giudizi, mi limiterò a riportare, in chiusura, il mio. 


Ben consapevole della impopolarità della mia opinione, dirò tuttavia che la mia valutazione storica di Franco è nel complesso positiva. La sua vittoria nella guerra civile spagnola fu in quel momento la vittoria della civiltà europea, occidentale e cristiana su forze disgregatrici provenienti dalle sue viscere (il radicalismo, socialismo e anarchismo spagnolo) e da modelli stranieri (il comunismo filo-sovietico), unite da un odio viscerale per ciò che di più profondo questa civiltà abbia, ossia la spiritualità e la religione. 

D'altro canto, credo vada fatta la seguente riflessione storico-politica.
Le dittature, ce lo insegna la sapienza giuridica della Repubblica Romana, possono avere un loro senso solo quando sono "regimi d'emergenza" in frangenti particolarmente complicati e ingestibili della vita nazionale. Sono sistemi per loro natura drastici, centralistici, con una necessaria componente repressiva, che comprimono i limiti naturali e normali della libertà per la preservazione di beni ancor maggiori. In questo spirito, i Romani erano capaci di alternare a tre anni di dittatura l'ora possibile ritorno integrale alla libertà civile.
 
Anche il franchismo, come visto, si concepiva quale "regime d'emergenza". Come fu per le parentesi dittatoriali della storia romana, esso contemplò pagine violente ed eccessi anche cruenti, com'è naturale che ogni dittatura contempli per sua propria costituzione - benché come visto queste abbiano riguardato una piccola minoranza della popolazione, rapportata ad una maggioranza a cui il regime seppe garantire efficientemente la tranquillità (ed anche, sia detto onestamente, una certa sostanziale libertà sociale, anche se non politica) che prometteva. Resta che, come al tempo di Roma, anche all'epoca di Franco questa momentanea e temporanea compressione delle libertà politiche in senso oligarchico fu necessaria per la preservazione di un quadro d'insieme ancor più importante della libertà medesima³, senza cui essa stessa sarebbe un idolo vuoto. Certo, lo scopo intrinseco più profondo delle parentesi dittatoriali di questo tipo dovrebbe essere ancora ulteriore: predisporre le basi di un ritorno alla libertà politica sano e adulto, depurato dalla corruzione politica e/o materiale e dalle scorie disgreganti demo-fazionarie e demagogiche che avevano reso necessaria la dittatura. Nel nostro caso, potremmo dire che questa momentanea centralizzazione autoritaria avrebbe potuto avere un suo senso maggiore se avesse predisposto la società spagnola (come quella portoghese nel caso di Oliveira Salazar) ad un nuovo libero assetto organico (aristocratico, decentrato, sussidiario). Questo non fu fatto, sia per l'oggettiva ristrettezza di vedute storico-politiche ad ampio raggio della casta militare al potere (Franco in primis), sia per le circostanze contingenti (che come visto vanificarono i timidi e parziali abbozzi dell'ultimo franchismo su questo fronte).  

Che il suo intento sia riuscito appieno ed in profondità (al di là dunque di un ruolo effettivamente salutare e necessario nella sua contingenza storica), ne dubitiamo per queste ed altre ragioni. Ed anzi, la struttura autoritaria del franchismo ha contribuito ad innescare per reazione lo spirito contestatario, nichilista e irreligioso che ha animato le successive generazioni spagnole e le anima spesso tuttora. Allo stesso modo, anche l'opprimente centralismo amministrativo imposto da Franco alla Spagna (proveniente, in questo caso, dalla tradizione centralista della Falange e non da quella localista del carlismo) ha rinfocolato quegli indipendentismi baschi e catalani che tanto han messo in pericolo l'unità del Paese nei decenni successivi.

E d'altronde, non si può pensare di tenere in piedi per mera opera di Stato quel tipo di società che il franchismo voleva preservare. Fintanto che essa sopravvisse, soprattutto nelle realtà provinciali, il franchismo conservò il senso della propria missione. Ma infine lo stesso Franco dovette realisticamente prender atto del fatto che il suo regime era diventato impraticabile, perché la società civile si stava progressivamente scollando dai valori dei quali esso era interprete (come il Metternich che si rese conto nell'esplosione rivoluzionaria del 1848 che "È inutile costruire le staccionate alle idee, le scavalcano!"). Purtroppo, la vieja España stava entrando in una gravissima crisi. Tenere in piedi una parvenza di quella realtà col pugno di ferro giacobino sarebbe stato (e sarebbe) artificioso e controproducente. Fatali furono soprattutto gli echi della Contestazione francese, che arrivarono a contagiare la gioventù spagnola senza che il Generalísimo potesse impedirlo. 

Note
1) Il saggio ha peraltro ricevuto, per quanto riguarda la documentazione storica sulla vita strettamente privata del generale, l'approvazione della figlia, María del Carmen duchessa di Franco.
2) Sul ruolo (spesso invero non encomiabile) dell'episcopato spagnolo nella transizione si legga Ricardo de la Cierva, "Historia esencial de la Iglesia Católica en el siglo XX". Questo autore sostiene interessantemente che le origini del frettoloso e piuttosto politicizzato (sul modello della sinistra democristiana italiana) antifranchismo della diplomazia vaticana sotto Paolo VI risiedano nella comprensione grossolana delle cose di Spagna che a Papa Montini veniva dalla sua scuola di formazione, quella del cattolicesimo milanese manzoniano (e d'altronde già la valutazione storica sul Seicento spagnolo del pur immenso autore dei Promessi Sposi fu indiscutibilmente ingenerosa), oltreché nell'influenza che su di lui aveva il pensiero politico del Maritain bellico e postbellico, in particolare di "Humanisme intégral" (1936). 
3) Si noti che chi scrive non ha in simpatia il sistema demo-partitocratico di massa e non lo considera affatto la via migliore alla "libertà piena" che la dittatura comprime temporaneamente. 
4) Breve appendice su António de Oliveira Salazar
Nel corso dell'articolo abbiamo più volte nominato António de Oliveira Salazar, che fu dittatore del Portogallo dal 1932 al 1968, e che viene spesso accostato a Franco. Nel concludere di trattare di quest'ultimo, diremo qualcosa anche di Salazar. 
Salazar non nasce come politico di professione, ma come economista e professore. Era un intellettuale di formazione cattolica, non un politico, ed iniziò la propria carriera come tecnico, ministro delle finanze nella dittatura militare del generale Carmona; per tutta la sua vita, egli rimase sostanzialmente un tecnico, un pragmatico, lontano dalle passioni ideologiche massificate della politica contemporanea. Durante il proprio incarico ministeriale, Salazar fu esemplare: le sue politiche fiscali riusciranno non solo ad ottenere dopo decenni il pareggio del bilancio, ma addirittura a portare il bilancio in attivo, cosa mai avvenuta nella storia del Portogallo contemporaneo. Proprio i successi del ministro Salazar, che avevano prodotto un notevole benessere generale, lo porteranno ad esser nominato capo del Governo, per pacificare il Paese ancora ferito dalle lotte intestine tra militari e repubblicani. Salazar instaurerà uno Stato autoritario, denominato Estado Novo (Stato Nuovo), che s'ispirava esplicitamente alla pacificazione imposta da Mussolini all'Italia con la marcia su Roma nel 1922. Al fascismo, Salazar s'ispirava anche per quanto riguardava l'idea economica del corporativismo, in linea anche con gli orientamenti sociali della Chiesa cattolica. Tuttavia, ancor più di Franco, Salazar non fu un fascista. I veri "fascisti" portoghesi erano i seguaci di Francisco Preto, che vennero messi fuorilegge dallo stesso Salazar. Egli sosteneva: "Il nostro regime si avvicina alla dittatura fascista per certi elementi, ma se ne discosta per altri. La dittatura fascista tende ad un cesarismo pagano, ad uno Stato che non conosce limitazioni di natura giuridica o morale, che marcia verso le sue mete abbattendo ogni ostacolo. [...] Le nostre leggi sono meno severe, i nostri costumi meno rigorosamente vigilati, da uno Stato che non proclamiamo assoluto e onnipotente come fa Mussolini". Quando nel 1938 l'Italia varò la propria legislazione razziale, Salazar (già contrario all'impresa etiope) criticherà pubblicamente la decisione, deplorando l'avvicinamento del fascismo italiano al modello tedesco; nel 1935, quando Hitler aveva promulgato le leggi razziali di Norimberga, Salazar aveva pubblicato un opuscolo di critica, nel quale stigmatizzava da un punto di  
vista giuridico ed argomentativo le leggi tedesche, definendo "pagano e disumano il proposito di fare idolo di una razza o di una stirpe". Addirittura, mandò una dura lettera all'ambasciatore tedesco chiarendo "senza possibilità di fraintendimento" che il Portogallo non avrebbe mai adottato norme discriminatorie nei confronti degli ebrei. Come visto nell'articolo, dunque, Salazar fu più precoce di Franco nel prendere le distanze dalle derive razziste del nazifascismo, che definì "cesarismo pagano". E questo nonostante la vicinanza a Italia e Germania che lo porterà ad esprimere cordoglio con bandiera a mezz'asta per la morte di Hitler, che definiva amico antibolscevico del regime portoghese. Al contempo, tuttavia, come Franco aveva offerto ospitalità agli ebrei perseguitati mentre mandava la Divisione Azul in sostegno all'Operazione Barbarossa, riportiamo per Salazar, tra gli altri, il caso di Moises Bensabat Amzalak, capo della comunità ebraica portoghese e molto vicino al dittatore che lo aiutò personalmente durante la guerra, e l'ambasciatore in Ungheria, Alberto Carlos de Liz-Teixeira Branquinho, che salvò 1000 ebrei con la copertura del suo capo di Stato. Nel dopoguerra, Salazar consoliderà i propri legami col Regno Unito, che erano forti e derivanti da una lunga tradizione storica. Egli fu così membro fondatore dell'ONU e della NATO, entrando ancor prima e più agevolmente di Franco nell'orbita occidentale ed anticomunista. Il suo regime fu pragmatico, moralizzatore, attento alle tradizioni del Paese provinciale e rurale e al contrasto alle ideologie moderne: Salazar fu un dittatore discreto, misurato, nascosto, diffidente degli entusiasmi superficiali e cangevoli della massa, lontanissimo dal modello del dittatore-divo degli Stati totalitari. Sua convinzione era che: "Le moltitudini tendono ad imitare i propri leader idealizzati (come la gioventù che imita, sfiorando il ridicolo, il passo e le smorfie di Mussolini); spesso, ne imitano soprattutto i difetti". Gustave Thibon, il grande filosofo-contadino francese, ci ha lasciato un inedito ritratto di Salazar, interpretato quale frugale e ascetico (conservò sempre la verginità in ottemperanza ad un voto fatto alla Madonna in gioventù) governatore-filosofo, scettico e mirante al sodo, il quale sosteneva che: "Governare significa proteggere la gente da sé stessa". Egualmente interessante il ritratto datone da Carlton Hayes, che attribuì a Salazar (il quale "non somigliava affatto ad un ordinario dittatore, ma ad un gentiluomo ed intellettuale modesto, calmo ed estremamente intelligente") il principale merito della neutralità iberica. La sua politica in ambito religioso (anch'essa tesa negli anni del "post-Concilio", come fu per Franco) era ispirata ad una profonda devozione personale, intrecciata soprattutto alle autoctone apparizioni di Fatima (ottenne peraltro il plauso di Lucia, una delle tre veggenti di quegli episodi), la quale rimpiazzava l'assoluta mancanza di passione politica ideologica e occupava un posto importantissimo nel regime di Salazar (che comunque non era un clericale, ma un sostenitore dell'idea che il ruolo della Chiesa fosse sociale, non politico; la libertà religiosa era garantita dalla costituzione del 1933 ai cittadini di ogni fede). Il rifiuto del razzismo s'accompagnò a partire dagli anni '50 alla filosofia del lusotropicalismo, che predicava il carattere multietnico e inclusivo della tradizione imperiale portoghese (neri furono deputati e divi calcistici del Portogallo salazarista). 
Il regime ottenne numerosi successi (ricevendo plausi illustri come quello di Von Hayek, e no
n stupisce troppo che nel 2007 un sondaggio nazionale abbia addirittura eletto Salazar "portorghese più grande della storia", tra l'imbarazzo dell'opinione pubblica e istituzionale), e non fu feroce
 nella sua repressione. Tuttavia, non fu esente da difetti: in primis la presenza della polizia politica, la PIDA, che pur autonomamente da Salazar (dittatore restìo agli spargimenti di sangue e alla stessa repressione, che personalmente motu proprio esercitò solo raramente, soprattutto ai danni del microcosmo clandestino comunista), si macchiò di taluni delitti anche cruenti. Inoltre, un certo paternalismo economico finì per rimpiazzare le aspirazioni corporative (ispirate più all'enciclica papale Quadragesimo Anno che allo statalismo mussoliniano), creando alla lunga un immobilismo stagnante. Morto nel 1970, Salazar sarà sepolto con grande e religiosa semplicità, prima di vedere l'Estado Novo cadere sotto i colpi della rivoluzione socialista dei garofani (che darà uno spunto "simbolico" a Craxi). Il suo regime, come quello amico di Franco, aveva esaurito la propria temporanea parentesi storica. Non aveva una carica storica profonda, era una mera dittatura circostanziale, che analogamente a quella iberica non volle o non poté lasciare una grande eredità nel tessuto sociale del Paese ad essa successivo. Il nostro giudizio è grossomodo analogo a quello riservato in conclusione al Caudillo, ma la personalità di Salazar è probabilmente più complessa (e interessante da analizzare) della sua. 

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